Firenze – Quando l’ex premier Matteo Renzi assunse la guida del governo del paese, un suo intervento sulla Scuola era largamente atteso, dato che, in anticipo rispetto alla sua nomina, ne aveva fatto un cavallo di battaglia e individuato nella Scuola il settore da cui partire per la rinascita del Paese. Ci saremmo aspettati un intervento fondato su un chiaro disegno culturale, cui si sarebbe dovuta associare la volontà di ridare dignità e valore all’insegnamento. Non si può infatti incidere sulla qualità della scuola, senza affrontare il tema della professionalità degli insegnanti, perché la scuola è buona se è fatta da insegnanti bravi e guidata da dirigenti capaci.
Qual è stato il cuore della riforma Renzi? Un provvedimento “tappa buchi” che si è risolto nell’assumere una parte degli aspiranti insegnanti cui era stato promesso che sarebbero entrati a lavorare stabilmente per lo Stato. Una riforma per guadagnare consenso, che, a dispetto dei proclami, non ha previsto alcun aumento stipendiale, mentre gli insegnanti italiani sono fra i meno pagati in Europa. Per non parlare del meccanismo degli scatti per merito, rimangiato in tutta fretta dalla ministra Giannini dopo le prime critiche da parte degli insegnanti.
Dignità e valore all’insegnamento sono rimasti una chimera e la scuola continua a scontare i mali del passato, su cui pesa come un macigno la dichiarazione del Governo che “le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze d’investimenti che servono alla scuola”. Per giustificare l’intervento dei privati nella scuola, nessuno si era mai spinto in modo così esplicito su una posizione politica incostituzionale.
Questa riforma non ha dato soluzione ad alcuno fra i problemi della scuola, ma ha aggravato quelli già esistenti e ne ha aggiunti altri. Non a caso il mondo della scuola si è rivolto massicciamente contro l’ex primo ministro, quando si è trattato di esprimersi sul Referendum costituzionale.
Come ho scritto nel saggio: La scuola di Renzi è davvero Buona? – Edito da Dissensi, maggio 2015: ” … Se fare l’insegnante è una condizione di privilegio (una fra le poche che dà e non toglie, ma arricchisce se è sorretta da una visione ideale), è anche vero che è una delle professioni più difficili da esercitare, che richiede doti, capacità e competenze , connotate dall’attitudine, mai sondata dallo Stato …, né in passato, né recentemente … Lo Stato si dovrebbe preoccupare di farvi entrare i migliori, selezionandoli accuratamente e gratificandoli opportunamente, anche in termini economici, al pari di professionisti competenti … cui si assegnano funzioni di alto valore civico e sociale …”.
E sull’autonomia degli Istituti? La riforma le assegnava un ruolo centrale e si è sostenuto a gran voce che l’assunzione di ex precari ne avrebbe garantito il rilancio. Un’assurdità. Ragionare in questi termini rende palese che chi ha scritto la Legge di riforma non conosceva affatto quella stessa realtà che avrebbe dovuto governare. Chi ha sperimentato l’autonomia sa bene che progettare e gestire iniziative didattiche, su cui si fonda l’identità culturale di ciascuna scuola, non può che essere demandato alla responsabilità delle punte più alte della professionalità insegnante, quelle che si sono formate e cresciute all’interno di in ogni istituto.
Per realizzare l’autonomia si parte da lontano, investendo sulle migliori risorse culturali, non si inventano in estemporanea attività che possono essere affidate a chiunque. Se così fosse, l’autonomia didattica e organizzativa si ridurrebbe a ben poca cosa …! Del resto, la realtà delle cose denuncia palesemente ciò che era prevedibile potesse accadere. La gran parte del nuovo contingente è utilizzata per “tappare i buchi” delle supplenze o per fare corsi di sostegno oggi a una classe, domani a un’altra …, con buona pace della dignità del lavoro e del rilancio dell’autonomia delle scuole!