Salari, la perdita di potere d’acquisto blocca il rilancio dei consumi

Dalla retribuzione del lavoro alla crisi del sistema

Mentre scade il termine per il recepimento della direttiva UE sul salario minimo, da parte dell’Italia la proposta di legge per dare corpo alla direttiva europea, presentata dall’opposizione, giunta alla Commissione Lavoro alla Camera, emendata dalla maggioranza e poi arrivata alla Commissione lavoro del Senato, quivi giace da dieci mesi circa. Eppure, la questione salariale in Italia rimane una delle questioni centrali per l’intero sistema economico. “La questione della perdita di potere d’acquisto dei salari reali che si sta manifestando in Italia negli ultimi decenni e, in particolare, negli anni recenti che hanno registrato alti tassi di inflazione, è decisiva e cruciale per il rilancio dei consumi e quindi della domanda interna ma anche per la coesione sociale del paese”.

Con queste parole il presidente della Fondazione Rosselli di Firenze Valdo Spini, nel corso del dibattito tenutosi lunedì scorso a Firenze, dal titolo “La questione salariale in Italia” , ha precisato la natura imprescindibile del tema, qualsiasi sia lo scenario economico del nostro Paese, che, ad oggi, mostra crepe preoccupanti. Al dibattito, moderato da Alberto Orioli, vicedirettore vicario del Sole 24 Ore, hanno partecipato Stefano Franchi, direttore generale di Federmeccanica e Rocco Palombella, segretario generale della Uilm.

“Qualche dato: fatto 100 l’indice della retribuzione oraria contrattuale nel 2013, questo dieci anni dopo, nel 2023 era salito a 112 e quindi del 12% – ha aggiunto Spini -. Ma nello stesso periodo l’inflazione era cresciuta del 19%. Un divario quindi del 7%. Naturalmente molto diverso da un settore all’altro. Proprio in questi giorni, peraltro, circa un milione e seicentomila lavoratori sono impegnati in una difficile vertenza per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, proprio la categoria qui oggi rappresentata dal direttore generale di Federmeccanica, Stefano Franchi e dal segretario generale Uilm Rocco Palombella. L’andamento dei salari reali dipende dalle vicende contrattuali ma anche dalla politica economica più generale in termini di tutti quei provvedimenti che determinano il salario reale, cioè la capacità di acquisto del lavoratore”.

“In un quadro del genere la capacità del sistema di aumentare la produttività è cruciale – ha concluso Spini -. Questo è il salto di qualità che dovrebbe fare l’Italia per uscire dalla stagnazione e che dovrebbe essere consentito dall’utilizzazione dei fondi Pnrr. Il 15 novembre è il termine per il recepimento della Direttiva Europea sui salari minimi adeguati. Questa direttiva suggerisce agli stati di predisporre un vero e proprio piano nazionale d’azione e di sostegno per la contrattazione collettiva per contrastare il dumping contrattuale e la non corretta applicazione del trattamento retributivo. Dobbiamo quindi chiedere che questo recepimento avvenga. E su questo va misurata la politica economica del governo”.

Il salario è un tema fondamentale, ma anche sottovalutato, dice Orioli, che lancia una serie di punti di discussione. “La preoccupazione di alzare i salari è stata posta sia da Mario Draghi e che da Christine Lagarde a livello europeo, ma in Italia non è stata ben posta. In Italia, la sottovalutazione è dovuta alla modalità con cui parte datoriale e e sindacati hanno affrontato il problema, ovvero è passato il principio che purché sia lavoro va bene e siamo arrivati al lavoro povero. E’ necessario però entrare nei singoli comparti, dove si registrano divaricazioni fra i vari settori. Il mondo della manifattura ha redistribuito ricchezza e lo ha fatto bene. Quando ci si rivolge a tutto il mondo del terziario classico, ristorazione, turismo, emergono situazioni terrificanti che non sono per niente all’altezza di un paese civile”.

Un altro tema critico, il fatto che si sia avverato “il problema del costo del lavoro sbilanciato, un grande tema che ha creato una sorta di deviazione sule dinamiche contrattuali spostandolo su una dinamica tutta politica, che salta le parti sociali”. Per quanto riguarda il salario minimo, “siamo un Paese con uno standard di rappresentanza sindacale invidiabile, che sarebbe un peccato che fosse cancellato, creerebbe una distorsione, che darebbe la possibilità paradossale di abbassare i livelli salariali raggiunti. Un’idea adolescenziale della politica, gestire il consenso e riappropriarsi del potere, il cui altro esempio è il reddito di cittadinanza, per fortuna sembra superato”. Che d’altra parte è presente in quasi tutti i paesi europei e il cui cancellamento ha provocato la crescita della povertà nel paese.

La rottura del tavolo fra i Federmeccanici e i Sindacati getta la sua lunga ombra sul dibattito. Franchi lo ricorda, insieme al fatto che col contratto 2016 e quello del 2021 “abbiamo scritto la storia e vogliamo continuare a scriverla”.

“Le politiche economiche possono rappresentare una chiave di volta che mirano alla equa redistribuzione – dice Franchi – come redistribuire ricchezza e come farlo nel modo giusto. Il tema della redistribuzione è centrale anche per le relazioni industriali. Serve una base solida, però, quindi di produttività. Cos’è la produttività? E’ la ricchezza, vale per il paese, il Pil. La ricchezza di un paese è un’indicatore che indica le performance di quel paese. Ma anche dell’impresa: serve a verificare quanta ricchezza produce, il paese ma anche l’azienda. Le politiche economiche devono produrre ricchezza e redistribuire ricchezza. Semplice, ma difficile realizzarlo. Produrre ricchezza e ridistribuire ricchezza per diffondere benessere“.

Su questo punto serve una forte concentrazione. “Questi sono giorni difficili, sia per il contratto metalmeccanico, ma anche per ciò che succede intorno a noi. Non so se parlare già di crisi, ma sicuramente possiamo parlare di grandissima difficoltà . Siamo il motore dell’industria italiana, rappresentiamo l’8% del Pil, il 50% dell’export. Se la metalmeccanica va male, tutto il resto non va bene. La preoccupazione è diffusa, ma ce n’è già una immediata, che è la crisi della Germania. E’ il primo paese verso cui esportiamo. La cassa integrazione è aumentata del 120%, e il 2025, per molti, sarà ancora peggio. Ciò che dobbiamo fare sempre e comunque è confrontarci con la realtà. La realtà è questa, e ci sono altre variabili, come quella dei dazi”.

“Non è un metodo giusto generalizzare, la generalizzazione porta fuori strada – continua Franchi – Quando si parla di retribuzioni, quelle dei metalmeccanici per distacco sono molto in alto rispetto a quelle di altri settori industriali. Vogliamo garantire sempre le retribuzioni all’inflazione. Circa gli indici dell’inflazione, dal 2012 a oggi abbiamo visto un pieno recupero rispetto ai metalmeccanici”.

Ma un problema resta sul tavolo. “Se c’è un’azienda che perde, ovvero che non produce ricchezza ma la perde, com’è possibile redistribuire ciò che non c’è? Dobbiamo impegnarci per far sì che la redistribuzione ci sia sempre e comunque. L’impegno deve essere che ovunque si produce di più, ci sia più retribuzione. Produrre ricchezza e redistribuzione sono vasi comunicanti. Dalle nostre indagini risulta che in più del 40%delle aziende (metalmeccaniche, ndr) ci sono i premi di produzione, che vuol dire che l’80% dei lavoratori è coperto. Laddove non c’è premio di risultato, se si raggiungono determinati livelli, è necessario redistribuire, come dettato dal contratto nazionale”. Ma se bnon c’è niente da distribuire perché non si produce ricchezza?

“Un sistema economico moderno non può tollerare variabili indipendenti- continua il direttore di Federmeccanica citando Luciano Lama – I salari non possono essere una variabile indipendente rispetto alla produttività”. Le parole di Lama pronunciate nel 1978, inquadrano un problema ancora reale. Fatto 100, da l 2016, la produttività nel nostro settore è arrivata a 102, i salari a 116, il costo del lavoro a 114, che è un indice di competitività. E noi che siamo un paese esportatore, dobbiamo essere ossessionati dalla competitività”.

I consumi sono anche ciò che si risparmia. “Abbiamo l’assistenza sanitaria integrativa che ha un valore anche sociale. L’assistenza sanitaria integrativa è di 160 milioni di euro di prestazioni ogni anno, e questo è sostegno al reddito. Ci sono contratti che hanno gli stessi minimi degli altri, ma sono considerati pirata rispetto agli altri perché non hanno tutto il resto. La questione salariale è un di cui di un tema politica economica di sostegno al reddito delle famiglie”. Quindi si tratta di un sistema composito, in cui c’è il salario, il sostegno al reddito delle famiglie e la redistribuzione della ricchezza aziendale. “Per chiudere: l’obiettivo deve valere come sistema paese, come sistema industriale manifatturiero metalmeccanico e come aziende per produrre ricchezza”.

Ma se la crisi è una crisi di modello? Una crisi di modello che si concretizza nell’erosione (o cancellazione) di alcuni diritti ritenuti fino a poco tempo fa universali avviando un meccanismo che va a compromettere le aspettative di futuro delle giovani generazioni. E’ Rocco Palombella, segretario nazionale della Uilm, a fare una rapida carrellata della crisi di sistema che ha investito il nostro Paese e non solo. Sanità e sistema delle pensioni, due aspetti fondamentali per i lavoratori, sono costrette a ricorrere a forme integrative, per potere ancora rispondere alle aspettative di cura da un lato e di serenità nella vecchiaia dall’altro. Mettendoci dentro anche il siistema della formazione e dell’istruzione, aggiungiamo noi, che diventa sempre più oneroso e meno qualificante nel versante pubblico, tanto da iniziare a porre un serio problema di accesso agli studi superiori da parte delle classi sociali più fragili economicamente. Isomma, studia chi ha i soldi.

Siamo di fronte a una quantità economica corrisposta al lavoratore che non dà più la possibilità di soddisfare quelle che sono le necessità dell’esistenza – dice Palombella – siamo poi davanti a una inflazione cattiva, quella del dopo covid, ovvero i prezzi salgono e la domanda si contrae. In parole povere, le persone non possono più comprare”. Un passaggio semplice, ma fondamentale, che svela un pericolo, quello di pensare i consumi slegati dal mercato. Un esempio? La crisi del mercato dell’auto. “Una crisi di cui si dà la colpa alla transizione, ma che in realtà non è legata a questo passaggio, per ora, dal momento che gli effetti sull’occupazione ancora non sono attivi. Il problema è che le auto hanno aumentato i prezzi, e il costo è tale che il lavoratore non compra. Non ce la fa”. Il che significa, secondo Palombella, che a determinare il prezzo è la massa, non il mercato di nicchia dei ricchi o super ricchi. Inoltre, il problema non è rappresentato dal costo dell’auto elettrica, in quanto i prezzi sono esplosi anche per le auto endotermiche. L’esempio dell’utilitaria dei nostri giorni, la Panda, è emblematico: è passata da 9mila euro a non meno di 15mila. Ma se le persone non sono in grado di comprare ciò che offre il mercato, il prodotto fallisce. “Del resto, le famiglie in generale si muovono, per l’acquisto, su due assi, la convenienza e la possibilità”. Va da sé che se manca la possibilità il prodotto rimane invenduto.

Dunque, il problema che si deve porre il governo, ma anche la grande impresa, è quello della socialità. “La grande azienda – dice Palombella – come i governi di qualsiasi colore essi siano, devono porsi il problema dell’aumento delle retribuzioni per garantire ai lavoratori, alle famiglie, una certa socialità universale”. Tanto più, che oltre le statistiche che differenziano e definiscono il problema, il dato di fatto, statistico anch’esso, è che in questo Paese ci sono cinque milioni di poveri, come ricorda il segretario della Uilm. Ed è un dato altissimo. Tirando le fila, in questo Paese ci sono 5 milioni di poveri assoluti mentre i lavoratori dipendenti rischiano di essere poveri pur lavorando.

Entrando nel tema specifico, “pensiamo che un lavoratore dipendente debba avere una contropartita economica tale da poter provvedere alle sue esigenze sociali”, di potere ottenere dal suo lavoro “un’esistenza libera e dignitosa”, citando la Carta fondamentale. “Abbiamo preso una quantità economica da destinare al welfare”. Ciò significa mettere in busta paga quelle quote che servono per supplire al welfare venuto a mancare, il diritto alla salute (sanità integrativa), alla pensione (pensione integrativa), in una parola, a ciò che doveva ed era assicurato per i lavoratori dipendenti dallo Stato. Perché? Un esempio calzante è la domanda che viene fatta a chi si rivolge al sistema sanitario pubblico per un servizio, ovvero non se si è lavoratori dipendenti, ma quale assicurazione si ha. Da ciò scaturisce il modello proposto dal sindacato, che dice Palombella, confermiamo, pur contemplando quella “flessibilità necessaria affinché quel modello venga modulato”.

Ci sono delle parole forti di cui tenere conto, in questo confronto. Ad esempio, la produttività. “La produttività non è e non può essere sfruttamento – continua Palombella- ma raccoglie tutta una serie di elementi che determinano la qualità del lavoro, la produzione e la soddisfazione del lavoro. Tenendo in conto la trasformazione avvenuta da cinquant’anni a questa parte, la produttività è fatta da organizzazione del lavoro e investimenti, che devono riguardare l’automazione. Un altro elemento importante è l’approccio con i dipendenti”, ovvero realizzare con coscienza e apertamente che il patrimonio di un’impresa è rappresentato dai suoi dipendenti. Altro che sfruttamento dei lavoratori. Il vero nodo è la valorizzazione del lavoro, renderlo attraente, dare disponibilità anche alle esigenze diverse delle giovani generazioni, arrestando l’emorragia dei ragazzi che vanno all’estero a lavorare, attratti da paghe più alte e da altre modalità di organizzazione del lavoro.

Tornando al contratto metalmeccanici, che diventa un po’ la cartina tornasole della situazione contrattuale italiana, Palombella prosegue: “E’ vero che nei rinnovi contrattuali abbiamo ottenuto un adeguamento dei salari, ma è anche vero che quell’adeguamento li ha fatti arretrare fra l’inflazione programmata e l’aumento dei salari. La cosa che non diciamo riguarda proprio la ricchezza. E’ vero che l’impresa deve produrre ricchezza, ma a chi va quella ricchezza? Intanto, il 40% se lo prende il governo in tassazione sull’aumento contrattuale, nonostante abbiamo insistentemente chiesto di abbassare il carico fiscale. Poi, la busta paga del lavoratore è gravata da una serie di addizionali, fra cui alcune paradossali, come quella che riguarda la diga del Vajont. Ciò che diciamo è che il primo livello di contrattazione deve garantire il recupero salariale vero”.

Al netto delle logiche speculative del tipo di inflazione (quella cattiva, dell’aumento dei prezzi e della conseguente riduzione della domanda) che stiamo affrontando, il punto di svolta dell’azienda, dice il sindacalista, è considerare o meno il lavoro un costo, perdendo di vista la realtà del lavoro come valore aggiunto e patrimonio aziendale. Se si perde di vista questo principio, abbiamo perso la sfida, dice Palombella, “perché si arriverà a produrre solo merci standard, in cui sarà fatale essere superati da Paesi che non considerano i diritti dei lavoratori imprescindibili. Ciò conduce l’Italia a diventare un “paese magazzino”, dove altri paesi vengono a depositare i loro prodotti e noi li venderemo. Se vogliamo invece mantenere il nostro Made in Italy dobbiamo continuare a mantenere i prezzi dei nostri prodotti più alti perché sono eccellenze, con i nostri lavoratori che guadagnano di più”. A maggior vantaggio di lavoratori e aziende. E anche della concorrenza.

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