C’era una volta una squadra di calcio. Giocava in Terza Categoria e brillava per due particolarità. La prima, era il nome insolito della compagine: A.C. Lebowski. Per i cinefili, non servono spiegazioni. Fin troppo chiaro il riferimento al lungometraggio dei fratelli Coen. Per gli altri, invece, alcuni cenni sulla trama de ‘Il Grande Lebowski’. La storia del film – per essere proprio sintetici – parla delle vicissitudini di Jeffrey Lebowski, detto ‘Drugo’, uomo eternamente disoccupato e dedito perlopiù al bowling, alla marijuana, e al White Russian. “Prendiamola come viene”, è il motto di ‘Drugo’. Lo stesso motto, appunto, che sosteneva i ragazzi dell’A.C. Lebowski nelle loro “imprese” sportive. La seconda particolarità della squadra era infatti l’innata e involontaria predisposizione calcistica al non vincere MAI una partita. Nemmeno per sbaglio. Zero vittorie, un paio di pareggi quasi per caso, un’infinita serie negativa di sconfitte; miriadi di gol subiti e una capacità realizzativa che si avvicinava parecchio agli standard sotto porta di Keirrison, Bonazzoli, Larrivey e “bomber” simili. Il destino di squadre come queste è spesso segnato: match su campi di terra giocati al freddo, umilianti sconfitte con punteggi tennistici, nessuno spettatore in tribuna, se non qualche padre in fuga dalla consorte e dalla routine del sabato pomeriggio, e qualche fidanzata innamoratissima o alternativamente non provvista di amante da sfruttare nei 90 minuti di gioco del partner.
E invece, succede l’impensabile. Una manciata di liceali si appassiona alle vicende calcistiche della squadra grigionera. Sono ragazzi che frequentano le curve degli stadi e che hanno un’ottica chiara sul mondo del pallone. Una visione ben delineata su quello che non gli piace del “calcio moderno”. La mercificazione, la spettacolarizzazione esasperata degli eventi sportivi e la repressione conseguente alla stessa mercificazione non gli vanno proprio giù. E così, quasi per gioco, nascono i ‘Drugati’. Prima sono in pochi, poi sempre di più. L’A.C. Lebowski diventa l’unica squadra della Terza Categoria fiorentina a poter contare su una torcida rumorosissima e festante. Seguono anni di striscioni, fumogeni, cori, risate e goliardia. La simpatia dei tifosi grigioneri si riassume nel nome con il quale battezzano la propria curva: Moana Pozzi. Una dedica alla più compianta artista italiana di sempre che viene dal profondo del cuore. Be’, forse non solo dal cuore, ma sono dettagli. Milioni di italiani ci hanno perso svariate diottrie, sulle prestazioni in video di Moana. Ma non i supporters del Lebowski, che invece “ci vedono benissimo”.
Dopo qualche stagione c’è voglia di cambiare. I ‘Drugati’ si sciolgono, nascono gli ‘Ultimi Rimasti’, gruppo ultras – che è uno spettacolo in sé – capace di attirare oltre 200 spettatori a gara nelle partite in casa. Non è l’unica modifica importante. “Avevamo voglia di fare il salto di qualità – ci racconta un membro della dirigenza grigionera. Volevamo più responsabilità e quindi abbiamo fondato una società tutta nostra, formandone naturalmente la dirigenza. C’è stata una scissione e siamo diventati il Centro Storico Lebowski. Non avevamo niente contro i ragazzi che componevano la vecchia squadra, anzi tutt’altro. Ma sentivamo la necessità di esprimerci e di testimoniare, con un esempio pratico, un modello esemplare di ciò che noi intendiamo per calcio. E in questo senso cerchiamo sempre di migliorarci e strutturarci sempre di più, imparando dai nostri errori e prendendo dal mondo del calcio dilettantistico di Firenze tutto quello che c’è di buono. E non è poco”.
La nuova società, nata da un biennio, ha regole e valori importanti. Come avete potuto notare, non ci sono i nomi degli autori dei virgolettati: non si accettano protagonismi nel Centro Storico Lebowski; la struttura della dirigenza è orizzontale e le decisioni sono prese previa ampie discussioni e dibattiti, affinché ci sia più partecipazione possibile da parte delle persone che gravitano intorno al pianeta C.S. Lebowski. Si sta inoltre lavorando ad uno statuto che ponga nero su bianco i principi che caratterizzano l’identità societaria: autofinanziamento, auto-organizzazione, autogestione del proprio ambiente, società impegnata nell’antirazzismo, rifiuto delle “imposizioni dogmatiche dello Stato”, che vuole trasformare lo stadio – con i suoi decreti – in un luogo di mera commercializzazione, dove il tifoso non viene più visto come una persona, ma come un
cliente, come un consumatore che “deve” comprare un prodotto. “Abbiamo certamente degli sponsor che ci danno una grossa mano – ci spiega un altro componente del C.S. Lebowski. Abbiamo accettato di averli semplicemente perché senza non potremmo esistere. Non possediamo ovviamente uno ‘stadio di proprietà’ e il Comune ancora non ci ha concesso un impianto, ma non è detto che un giorno non avremo le forze e l’esperienza per farci avanti e chiederne uno. Nel frattempo ci dobbiamo rivolgere ai privati, che ci aiutano in quanto appassionati del nostro progetto. Gestire una piccola società di calcio è più complesso di quanto sembrerebbe. La fonte principale di sostentamento è l’autofinanziamento. Organizziamo feste e collette, abbiamo le tessere per i soci, che sono una sorta di abbonamenti. Viviamo anche dei contributi dei componenti della società, ma ciò non crea nessun tipo di classismo. Chi dà di più non ha diritto a prevalere nelle decisioni. Rifiutiamo assolutamente qualsiasi tipologia di sistema verticistico”.
Ma, ve lo chiediamo da “profani”, in cosa consiste l’essere “contro il calcio moderno”? “E’ un discorso prettamente sociale – risponde un dirigente del C.S. Lebowski. Diciamo che è un dissenso sia dal punto di vista filosofico, sul piano della mentalità, sia dal punto di vista pratico. Per noi è fondamentale poter gestire il nostro spazio, formare la nostra identità, esprimere la nostra personalità dentro ai rapporti sociali. Lo stadio, negli anni ’70, ’80 e in parte ad inizio anni ’90 era un luogo di aggregazione, di sviluppo, di crescita di vita, di sfogo emotivo. Prima ci andavi con tuo padre, poi con i tuoi amici. Si potevano creare legami, organizzare eventi, pranzi sociali. C’era la condivisione. Adesso, invece, la logica del profitto ha cambiato l’evento”. La dirigenza del C.S. Lebowski argomenta quindi le proprie tesi contro la – a loro dire – fallimentare Tessera del Tifoso. Per il C.S. Lebowski, con la tessera, si è creata una evidente ‘selezione’ del pubblico. Il punto, infatti, sta nel ruolo dei cosiddetti “paganti”. Lo spettatore oggigiorno va in stadi che sono diventati solamente location di monetizzazione, sostengono i promotori della “causa Lebowski”. Dai prezzi salatissimi del biglietto al merchandising all’interno degli impianti, fino all’impossibilità di usare gli spazi dello stadio come un contenitore per l’espressività e le ritualità collettive. Siamo perciò di fronte ad un vero e proprio processo di valorizzazione economica, che sembra sempre più irreversibile con il passare del tempo. Spesso si parla di tifosi violenti – prosegue a discorrere lo staff dirigenziale grigionero –, di atteggiamento preventivamente “contro” le forze del’ordine. Ma chi ci sta parlando specifica che l’antagonismo verso le stesse forze dell’ordine negli stadi di tutt’Italia è nato a seguito delle “riforme economiche” che dall’inizio degli anni novanta – dai soldi piovuti per l’organizzazione del Mondiale nella nostra penisola –, hanno teso a rendere il calcio una delle maggiori industrie del paese.
Non c’è dunque rancore nelle loro parole, ma solo un netto distaccarsi dalla prima citata logica del profitto. “In questo meccanismo perverso, che nasce dall’alto – tiene a specificare a proposito il C.S. Lebowski –, sono poi sì agenti fondamentali le forze dell’ordine, che sul campo impongono questi diktat, ma anche i giornali, o comunque i mezzi di comunicazione. Un giornale ha infatti interesse ad avere rapporti con le società di Serie A per interviste ed esclusive e dunque, per mantenersi in buoni rapporti, sono costretti ad accettare la linea guida delle società, che si basa quasi sempre sul guadagno. Diventano quindi parte integrante del sistema e assumono anch’essi un ruolo di tipo produttivo nel panorama calcistico. Noi del C.S. Lebowski non ci stiamo ed infatti siamo stati più volte al centro di false notizie nei nostri confronti. Notizie false che diventano terrorismo mediatico e danno adito all’ossessione della pubblica sicurezza”.
Il C.S. Lebowski – al contrario delle speculazioni precedentemente descritte – si pone pertanto come mezzo di crescita e come momento di sentimento da condividere con gli altri. Questo attraverso il calcio, operando con un movimento che fa della solidarietà sociale attiva un credo profondissimo. Passione, amicizia, voglia di stare insieme e di essere realmente protagonisti nel proprio ambiente, contribuendo a far sì che la squadra diventi veramente quello che si vorrebbe. Questo è attualmente il fenomeno C.S. Lebowski. Un fenomeno lontano dai fatti di cronaca legati alla violenza degli stadi. Un fenomeno che ha come portavoce dei ragazzi stanchi di andare a vedere la Serie A e di sentirsi dei clienti che – al massimo – possono fischiare quando il prodotto “comprato” non è di loro gradimento. Un fenomeno che potrebbe – facendo debiti gesti scaramantici – arrivare anche in Seconda Categoria. Il C.S. Lebowski è quasi in zona play off. La squadra non è più una simpatica Armata Brancaleone, ma un undici agguerrito e competitivo. E nonostante i giocatori non prendano un euro, la voglia di lottare per la maglia e per i propri tifosi diventa per loro una motivazione inarrestabile. Una motivazione che li porta a correre sul rettangolo di gioco per essere – insieme agli ultras grigioneri – gli ultimi eroi romantici di un calcio ormai senza più poesia.