Ritorno nella città villaggio

Dovrai entrare con rispetto e cortesia

Se dovessi un giorno tornare nei luoghi della tua memoria, sulle colline che fronteggiano quella plaga marina ricca un tempo di paludi e di cavalli selvaggi, in queste terre di frontiera, tra borghi e villaggi segnati da tristi destini e antiche servitù, fermati ancora una volta in quel grumo di case che se ne sta arroccato sul poggio a solatio. In quella crosta petrosa che spunta tra le pieghe di magre vallate.

E’ un luogo familiare come sai, che non ha bisogno di giustificazioni. Quante volte avrai percorso quelle strade così tortuose, così polverose che anche le siepi di rovo ai loro margini biancheggiavano nella notte. Quante volte le prime luci che spuntavano tremolando sui vetri della corriera, ti accoglievano dopo un lungo e sconfortevole viaggio. Quante volte avrai salito e disceso le scale dentro quel guscio murato che ti ha avvolto come un sacco amniotico.

Non ti sorprendere però se non incontrerai nessuno che ti possa indicare dove ritrovare l’osteria, la locanda o la casa che ti vide ancora in fasce. Sarai costretto a peregrinare per vicoli e gradinate, bussare a cento porte, affacciarti a quelle che ti appaiono ancora le botteghe della tua fanciullezza: come quella dello speziale, che sta nei pressi della piazza, sotto una smisurata e illusoria trabeazione, che espone nella piccola vetrina di legno dipinto i più recenti medicamenti.

Scosta la tenda antimosche, entra pure, ma non ti distrarre davanti alle scansìe zeppe di vasi di confetti, di pastiglie, di erbe medicinali; al bell’ordine di ampolle di olio di gelsomino, di calendula, di lavanda; alla sfilza di alborelli colmi di unguenti, sciroppi, lattovari; alla teoria di anfore traboccanti di balsami, cataplasmi, pomate; alla campana di mignatte che si abbarbicano alla parete di vetro in cerca di sangue malsano.Quantunque tu lo cerchi, lo chiami a voce alta, ti addentri nel suo retrobottega tra alambicchi, storte e distillatori, nessuno ti risponderà.

O come quella del droghiere con la sua esotica esposizione di spezie: caffè, cacao, cannella, noce moscata, pepe bianco, vaniglia, garofano. La bottega è deserta né ci sarà qualcuno che ti chiederà cosa desideri. Scansa pure la bottega del civaiolo, anche se quella parata di sacchi di fave e di lenticchie, di farine di mais e di castagne che fa bella mostra di sé sulla via, ti distoglie per un attimo dalla vana ricerca del negoziante. Né altro risultato otterrai con la vicina falegnameria dove il rumore di seghe a nastro, di piallatrici e levigatrici pare richiamare presenze di cui non tarderai a riconoscerne l’illusoria apparenza.

Così per la fucina del maniscalco, dove udirai il crepitio del carbone nella forgia, o il colpo del maglio sull’incudine, ma non chi ti potrebbe darne una ragione, come forse l’adiacente selleria di cui restano solo in bella presenza gambali in cuoio lustro di sugna, scafarde di vacchetta, bisacce e giberne in cuoio grasso, redini, briglie, cavezze, bardature d’ogni tipo, testiere, pettorali, reggicoda.

Tenterai ancora, senza successo, di sporgerti nella bottega del barbiere, frequentata una volta da tutti gli abitanti, chi per radersi, chi per cianciare, chi per malignare. Ti girerai intorno, sotto il fruscio delle pale del ventilatore; vedrai finalmente un’ombra nel grande specchio che ti sta davanti ma non tarderai a scoprire che è soltanto la tua.

C’è ancora vita nella taverna che affaccia sulla piazza? Le seggiole impagliate sono ancora lì, davanti all’uscio di castagno in attesa del viaggiatore con gli ultimi scampoli di damascato. Nell’effluvio di profumi che si diffonde fino alla soglia riconoscerai le uve di vermentino e sangiovese. I ceppi nel camino di graniglia ardono ancora. Il banco di marmo della mescita è sparso di bicchieri e caraffe colme di vino. Un suono di stoviglie mosse sembra provenire dal fondo della cucina. Resti di sigaro fumano ancora nei portacenere. Chi avrà posato sui tavoli quel mazzo di carte da gioco?

Ti avventurerai allora per il reticolo di viuzze e vicoli che si inerpicano su per la collina, tra pareti scrostate e panni stesi, dove imposte spalancate e finestre illuminate sembrano rivelarti finalmente una presenza umana. Pochi passi e troverai il portone della pieve socchiuso. Un flebile suono di organo a canne ti annuncerà forse qualche cerimonia, qualche veglia funebre, ma la chiesa è deserta, il canonico è scomparso e la tastiera muove automaticamente i propri tasti.

Più avanti, la luce che filtra dall’abitazione della levatrice ti spingerà ad inoltrarti per le scale della casa. Tenderai l’orecchio aspettandoti voci di donne, vagiti di neonati, frastuono di familiari, ma il silenzio che incombe ti avvolgerà senza sosta. Desisterai davanti allo studio del medico condotto dove un cartello annuncia il suo trasferimento ad altra sede e la nomina di un sostituto di cui non è dato sapere.Ti precipiterai allora giù per la scalinata che porta alla scuola, nell’ansia di scorgere, almeno lì, qualche anima tra i banchi dell’aula che si affaccia sul giardino pubblico. Del resto i lindi grembiuli saranno ancora appesi al loro posto, dalle cartelle aperte sporgeranno i sussidiari ben rilegati, il registro delle presenze riposerà sulla cattedra accanto al mappamondo e sulla lavagna di ardesia grigia un gessetto colorato avrà dettato i compiti del giorno. La campanella suonerà ma nessuna traccia comparirà di alunni e maestri, svanito il custode, assente il signor direttore.

Ti sovverrai forse della sala della musica dove la banda municipale sta certamente provando il concerto che terrà in piazza per la festa patronale. Scorgerai dalla finestra lo schieramento di strumenti disposto intorno alla pedana del maestro: flicorni, flauti, clarinetti, trombe, eufoni, bassotuba, timpani, grancassa, piatti. Ma i musicanti dove sono?

Non ti resterà che il palazzo del municipio. E’ il giorno delle udienze, il sindaco dovrebbe ricevere nel suo ufficio. La bandiera nazionale sventola sul balcone. Il portone sarà certamente spalancato ma della guardia municipale non c’è notizia.
Udrai il battere delle macchine da scrivere, ti avventurerai per i corridoi desolati, tra una successione di stanze e di scrivanie abbandonate, ma il sindaco è irreperibile. Non ti scoraggiare. Non abbandonare ciò che cercavi. Non vedi che c’è un altro luogo abitato sulla collina antistante? Un agglomerato, cinto da mura di travertino e circondato da cipressi centenari.

Dovrai entrare con rispetto e cortesia. Solo così ti accoglierà la comunità di giovani e di anziani, uomini e donne, felici di poterti ricevere, visitatore tanto atteso, che da molto tempo non era dato di ospitare. Fin dal percorrere il viale di cipressi che conduce all’ingresso e varcare la cancellata che si apre sul muro di confine, ti verranno incontro. Ci sono il fornaio e il postino, il falegname e il maniscalco, il veterinario e il maresciallo dei carabinieri, il meccanico e la maestra di scuola.

Ritroverai volti mai dimenticati, figure che hanno popolato i tuoi ricordi di gioventù, amici che ora cercano di farsi largo tra la gente per salutarti, stringerti la mano, abbracciarti; per rammentare le estati passate insieme, le passeggiate sotto il cielo stellato, i balli sotto la pergola di uva fragola, le feste di nozze al suono di vecchie fisarmoniche, i bagni alle cascate e i tuffi nella vasca di acqua calda, tra i fiori di zolfo che vi spalmavate sulla pelle, le cene tra i pagliai nel podere di famiglia, le merende all’ombra dell’acero secolare.

Ti festeggerà l’emerito canonico rievocando le celebrazioni dei santi patroni, le processioni solenni, i giochi notturni nel piazzale davanti alla pieve. Sotto il portico di marmo riconoscerai le affabili donzelle che ti sorrideranno, memori delle tante baldorie nella loro osteria.Rivedrai il vecchio maestro che venne da lontano per dirigere la banda musicale in quella indimenticata estate di molti anni fa e che ancora si commuove al ricordo dei fortunati concerti in piazza e dello struggente commiato che la popolazione gli riservò.

Ti sentirai chiamare dal vecchio mezzadro che non ha scordato le ore buie della discordia e del sangue, la fuga dalle case, le dormiveglie nei più insoliti ripari di fortuna, i bambini e i ragazzi nella mangiatoia della stalla. Ma anche i giorni della mietitura e della trebbiatura, i salti sconsiderati nella lolla, le temerarie sgroppate sui prati di erba medica, le vendemmie. E, al calar del sole, la processione delle donne, con le zuppiere di acquacotta e i paioli di buglione.

C’è anche un’ombra che ti segue e che non potrai dimenticare. E’ la memoria di queste terre, il tutore di storie e figure che ne hanno formato i tratti originari. E’ l’appassionato cultore delle impronte che il tempo e le generazioni che si sono succedute in questi luoghi hanno impresso e lasciato sul suolo. Non potevi mancare nella sua merceria. Non era una bottega, era un consesso di impudenti provocatori, arguti e faziosi, sfaccendati e buontemponi, tra frammenti di buccheri e lucerne ad olio, reperti fittili e lumi a petrolio, ciocchi di ulivo scolpiti a forza di sgorbia e vecchie macchine da cucire, ritagli di giornali e documenti d’ogni genere.

Nulla ti tratterrà però alla vista di quella mite e cara sembianza. E’ colei che da piccolo ti ha accudito, che governava la casa, che impastava il pane nelle soffitte domestiche, che curava l’orto, che provvedeva alla cucina e a tutte le incombenze quotidiane. Sarà lei che ti solleciterà al ricordo delle tenerezze familiari, dei racconti attorno al fuoco del grande camino, dei pranzi natalizi, dei riti pasquali. Sarà lei che con garbo tutto materno ti conforterà delle molte pene che pure ci furono.

Invero, tutto questo è dato a te, a te soltanto. Il forestiero che si trovasse a transitare per queste contrade e sostasse anche per poco tra queste mura non troverebbe altro che mucchi di terra smossa, lapidi divelte, urne spezzate, sepolcri violati. Vagherebbe inutilmente tra edicole dirute, ossari profanati, cripte depredate, loculi abbandonati. Indifferente alla miriade di effigi disseminate tra cocci di vaso e fiori risecchiti, alla ricerca di un senso nei volti, sorridenti o mesti, malinconici o gioviali, freddi o delicati, che consunte opaline sembrano ancora rivelare. Né altrimenti lo potrebbero intenerire i candidi ed epici nomi – Alcibiade, Marsilia, Temistocle, Liberio, Cleofe, Alfeo, Cleonice, Zelinda, Aspasia, Altero, Amerinda – che affiorano sui resti di marmo sparsi tra muschi e licheni, dove ora merli e ghiandaie la fanno da padrone.

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