“Vedendo passare in corteo i sessantottini, Eugène Ionesco li ingiuriò con una profezia: diventerete notai. In effetti molti di loro passarono da Agito ergo sum a Rogito ergo sum. La contestazione finì in cointestazione” (Marcello Veneziani, “Rovesciare il ’68”, Mondadori 2007)
C’erano sì e no una decina di persone (nostalgici, curiosi, sospesi nel tempo?) ad uno dei dibattiti di chiusura di FestaReggio domenica sera. Quello su una relativamente recente quasi planetaria storia protestataria alla presenza del politologo Paolo Pombeni (Professore emerito di Scienze Politiche all’Alma Mater bolognese), che per i tipi del Mulino ha di recente pubblicato il pamphlet “Che cosa resta del ’68” (senza punto interrogativo).
Appuntamento che avrebbe meritato miglior sorte ma sintomatico comunque di come la celebrazione del mezzo secolo che ci separa dalla prima forma di rivoluzione culturale globale e globalizzante, seppur inizialmente non organizzata, stia passando pressoché inosservata al termine dell’anno che ne scandisce le cinque decadi. Non fosse per la consueta pubblicistica di estrema nicchia ed altrettanto estrema resa, nel doppio senso editoriale di copie invendute e di collocazione intellettuale a prescindere.
Quello che però ci interessa in questa sede non è la generale analisi sociologica di quello che del ’68 ha varcato i confini temporali innestandosi nella sensibilità moderna e di quello che invece è rimasto aldiquà del bardo, nel limbo spaziale delle pretese rivoluzioni interrotte. Bensì sottolineare un aspetto germinale (nella sua accezione negativa tra i tanti indubbiamente positivi che ha avuto quel sogno generazionale) che collega quell’epoca ai giorni nostri, seguendo la logica (non empirica ma teorica) di un filo rosso antropologico.
Il primo riguarda la difficoltà strutturale nel portare a termine (fors’anche nell’iniziare) un vero processo riformatore (o riformista) di alcuni settori e istituzioni del Paese; l’imperituro approccio morale (di facile discesa nel moralistico) con cui si affronta la discussione politica, divide nettamente ed a priori le parti in campo. Senza o quasi possibilità di arrivare ad una mediazione di fronte ad un interlocutore individuato, da entrambi i lati, come vizioso perché collocato, sempre e comunque, dalla parte sbagliata. La presunta superiorità ideale che ciascuno competitore si autoattribuisce non solo blocca sul nascere qualsiasi ipotesi di soluzione ma impedisce di fatto quel necessario processo di autocritica sulla strada della composizione di un problema. L’autogiustificazione di molte scelte sulla base che comunque si agisca in vista di un bene superiore (che giustifichi dunque il ben predicare ed il razzolare male), ha origini lontane ma l’ultima declinazione deriva dalla combinazione di una critica anarchica dell’esistente unita ad una sorta di attesa millenaristica ben miscelata nelle speranze di 50 anni fa.
Il secondo tocca la sfera dell’assalto all’autorità nella sua duplice livella di autorità ma anche di autorevolezza; l’egualitarismo scolastico a favore del voto sociale, l’equiparazione delle culture in nome del comunitarismo messianico non solo hanno realizzato il trionfo dell’individualismo senza merito né regole ma, per estensione, relativizzato anche i valori universali. Nelle società multietniche questo si trasforma in convivenza senza dialettica nel migliore dei casi e dunque in un’integrazione solo di facciata. Per estensione ulteriore, in campo politico e del sapere, nella più totale mancanza di capacità critica e pertanto costruttiva (solo le grandi dispute intellettuali e scientifiche hanno permesso la crescita dell’umanità ed il fiorire delle scoperte), per acquiescenza settaria od offensivo diverbio.
E qui veniamo al terzo, solo accennato problema, la sfera dei media e dei social-media in particolare, ovvero la residua capacità dell’uomo di confrontarsi nella polis e per la polis coi “semplici” strumenti del civile dibattito. E’ sotto gli occhi di tutti come oggi il confronto sia terribilmente inficiato da posizioni post-ideologiche spesso sradicate da un contesto sensato o dalla volontà di incontro. Il muro contro muro è palesato in modo perfino sfacciato dalle piattaforme del web. Di qua i “buonisti” o “radical-chic”, di là i “cattivisti” o “populisti” per riabusare di neologismi banalizzanti e/o fuorvianti; potremmo definirli invece “turbovaloristi” vs “retropensierosi” e viceversa. Immersi in una indefinita materia di iperconnettività dove un parere è indistinguibile dall’altro, si è così passati dalla collettivizzazione dei sogni alla condivisione dei particolari quotidiani. In un continuo rituale di solitudine di massa scandito da clic compulsivi verso una smaterializzazione finale degli orizzonti comuni che è tanto più reale quanto più è virtuale.