Pisa – Molto tempo fa, nei verdi spazi di Rolling Hills dove scorre il fiume Mbashe. La data del calendario è il 18 luglio del 1918 quando, nel piccolo villaggio di Mvezo, viene alla luce il bambino che avrebbe cambiato la storia dell’Africa e del mondo. Alla nascita gli viene dato il nome di Rolihlahla. Anni dopo, nel primo giorno di scuola, il registro di classe indica che il suo nuovo nome è Nelson. Quando raggiunge l’età dell’iniziazione per la sua tribù, gli Xhosa, diventa Dalibhunga. È di nobile lignaggio, appartiene alla dinastia dei Thembu, è discendente di re. Quel bambino un giorno diventerà capo di una nazione, ammirato e rispettato ovunque. Il cognome che il nonno aveva preso durante lo schiavismo era Mandela. Per l’Africa era e sarà per sempre Madiba.
Mandela è un’icona, è il simbolo della lotta alla segregazione razziale. È stato il prigioniero politico più famoso della storia. Nel 1964 viene condannato all’ergastolo con l’accusa di eversione e cospirazione. Durante il processo pronuncia un’accorata autodifesa, è il manifesto politico di un grande leader politico: “Odio la pratica della discriminazione razziale, e nel mio odio sono sorretto dal fatto che la stragrande maggioranza del genere umano la odia allo stesso modo … Odio l’arroganza razziale che decreta che le cose belle della vita siano un diritto esclusivo di una minoranza …. Qualsiasi cosa la corte potrà farmi non cambierà in alcun modo questo odio, che può essere superato solo eliminando l’ingiustizia e la disumanità che ho cercato di rimuovere dalla vita politica, sociale ed economica di questo paese.”
Un proverbio africano recita: un uomo è un uomo solo nell’interazione con gli altri. Per 10 mila giorni Mandela è privato della sua libertà. Rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, dove sconta gran parte della pena: posto in isolamento, costretto ai lavori forzati e a punizioni corporali. Le visite gli sono sovente negate. È autorizzato a scrivere una lettera ogni sei mesi, non più lunga di 500 caratteri. Tutte le missive sono vagliate e censurate. Nel 1988 il ministro di Giustizia gli concede la semilibertà. Arriva il giorno della sua scarcerazione definitiva, 11 febbraio 1990. Mandela esce dalla prigione senza condizioni. L’anno successivo partono i negoziati ufficiali tra il governo di De Klerk e l’ANC di Madiba. Entrambi otterranno il premio Nobel per la pace.
La svolta è vicina. Il 10 maggio 1994 Nelson Mandela è eletto presidente: “Governiamo in libertà”. Il primo passo è fatto. Nel 1996 il Sud Africa approva una nuova costituzione. La vittoria del Sud Africa nella finale di rugby del 1995 a Ellis Park è il riconoscimento dell’autorità di Mandela. Prima dell’inizio del match indossa la maglia numero 6 del capitano, il 95% degli spettatori presenti nello stadio di Johannesburg sono bianchi. Mandela cammina lentamente verso il centro del campo, attimi di silenzio e poi un coro assordante si alza al cielo: Nel-Son. Nel-Son. Nel-Son. Quel coro vale quanto e più di un’elezione, è una acclamazione.
Tra il 1996 e il 1998 viene creato il tribunale per la riconciliazione, presieduto dall’Arcivescovo Desmond Tutu. La corte sentenzia l’amnistia per oltre mille persone. Un altro difficile capitolo della storia del Sud Africa è chiuso. Manca lo sviluppo del nuovo stato, il programma lanciato da Mandela è ampio: 700 mila case ai poveri, miglioramento della rete elettrica e idrica, accesso all’istruzione e pensioni. Ebbene il primo ad ammettere che il suo “miracolo” non era perfetto fu proprio lui. Nel 2004 Madiba si ritira dalla vita politica, è criticato da molti. Accusato di essere stato troppo autoritario in talune decisioni; di essere stato lento nella lotta all’HIV; di non aver saputo frenare un sistema dilagante di corruzione e di essersi fidato troppo delle persone a lui vicine. Tutto in parte è vero, non può essere negato. Le piaghe del Sud Africa di oggi sono povertà e criminalità. La lezione di Mandela è, e rimane, la speranza di un mondo migliore: “Ho combattuto contro la dominazione bianca. Ho combattuto contro la dominazione nera. Ho accarezzato l’ideale di una società democratica e libera, in cui tutte le persone vivano insieme in armonia e con pari opportunità. È un ideale che spero di vivere e raggiungere. Ma, se necessario, è un ideale per cui sono disposto a morire.”
5 dicembre 2014 una giornata assolata a Pretoria, le scuole sono chiuse per le vacanze estive, nelle strade non c’è traffico. Per arrivare al centro bastano pochi minuti. Eppure non è un giorno come gli altri per il Sud Africa il mito di Mandela aleggia nell’aria. Desmond Tutu è forse la persona più indicata a ricordare l’amico di una vita: “Il nostro obbligo morale nei confronti di Madiba è continuare la costruzione di quella società che lui immaginava, seguendo il suo esempio”. Intanto in queste ore proseguono le commemorazioni in ricordo dell’ex presidente. La manifestazione ufficiale è al Freedom Park di Pretoria. Auto blu. Personalità politiche in abito scuro e occhiali da sole firmati. Ingente la sicurezza. L’altra ricorrenza è meno formale, non c’è il minuto di silenzio. Siamo nelle strade degli slams di Soweto e Tembisa. Molta gente indossa la maglietta gialla con stampato il volto sorridente di Mandela. E’ tra le baracche di lamiera che si perdono a vista d’occhio, tra i bambini senza scarpe che corrono lungo le polverose strade che Madiba continua ad ergersi con la sua forza, in piedi con il pugno chiuso, qui il suo grido di verità risuona: “Amandla!”. E la gente che soffre ancora una volta risponde: “Awethu!”