Da tempo immemorabile si discute di cosa fare delle opere d’arte originarie di un paese e finite in musei di altri paesi. Restituirle o lasciarle dove ormai le ha viste la storia? A volte la discussione si sopisce, in altre riprende vigore. Di recente, si è riaccesa, dopo la scoperta, rivelata dal Times, di circa venti anni di furti a fine di lucro di preziosi reperti custoditi al British Museum che ha portato al licenziamento del curatore delle collezioni dell’antica Grecia e ha scatenato una polemica internazionale. Con la direttrice dell’Associazione degli archeologi greci, Despina Koutsoumba, che ha definito il museo londinese insicuro e ha riaperto la storica diatriba richiedendo ancora una volta indietro i preziosi marmi del Partenone esposti al British. Giriamo la questione al noto archeologo italiano Carlo Pavolini.
Detto brutalmente, Pavolini, i marmi del Partenone devono tornare in Grecia? E, più in generale le opere d’arte per qualsiasi ragione emigrate vanno rese o meno ai paesi d’origine?
“Premetto che non mi sono mai specificatamente occupato della questione, né ho nozioni giuridiche approfondite al proposito”.
La blocchiamo subito: lei è comunque un archeologo di lungo corso, uno dei più noti tra quelli italiani, immaginiamo che un’idea se la sarà fatta.
“Certo, ma da archeologo generalmente inteso e da cittadino. Come tale, rovescio immediatamente la domanda definita brutale e piuttosto di rispondere a bruciapelo faccio una premessa, che a prima vista sembrerà non avere nessuna relazione con il tema, e invece io sono convinto che ne sia la base fondamentale”.
Interessante, ci spieghi.
“Bene. Il dilemma se restituire o meno si lega a una più generale questione:da qualche anno si sente molto parlare della rivendicazione di identità nazionale, della patria e annessi e connessi. Una tendenza che, anche e soprattutto alla luce di quanto sta avvenendo in questi terribili momenti, andrebbe vista con attenzione e ben analizzata in tutti i suoi aspetti, vista l’assai rischiosa possibilità che porti a scontri drammatici”.
C’entra con il Partenone?
“C’entra. Perché vale anche per quanto riguarda il patrimonio artistico, a proposito del quale si discute tra realtà originaria e diversa consuetudine storica. Io credo che varrebbe la pena sostituire al concetto di identità quello di appartenenza, perché penso che le identità siano qualcosa di molto sfuggente. Prendiamo ad esempio l’Italia. Qual è l’ identità di un paese che è sempre stato terra di contaminazione, dove sono passati greci, etruschi, galli, dove ogni tipo di cultura si è mescolata e, pur tra mille tragedie, in modo anche fecondo?”.
E dunque i marmi del British Museum?
“Si è riaccesa la fiammata, è vero, ma la questione è più vasta. Per esempio, dall’Ottocento fino alla decolonizzazione degli anni ‘60, Italia, Francia, e anche la Germania, sebbene in modo meno noto ma non certo inesistente, hanno strappato in modo brutale oggetti e manufatti d’arte dall’Africa. E questo per quanto riguarda gli Stati. C’è poi un altro importante filone di esportazioni clandestine che passa per mani spesso anche poco chiare, di oggetti d’arte finiti in luoghi importanti, come per esempio il Getty Museum di Los Angeles o anche il newyorkese Metropolitan. Se, invece, ci fermiamo ai furti del British Museum sembra evidente che un dipendente sleale vada denunciato, ma appare strumentale affermare che gli inglesi non siano capaci di gestire un museo e per questa ragione si debbano rendere alla Grecia i marmi del Partenone. E’ chiaro che la richiesta avviene sull’onda dell’emozione, ma è altrettanto evidente che riporta alla luce il tema più generale e che il Partenone è un pur importantissimo e celeberrimo tassello di un discorso più largo”.
Facciamolo, questo discorso.
“ Ci sono due filoni. Uno, quello statuale, dei musei pubblici americani, inglesi, del nord Europa. E un altro, il mercato clandestino dell’arte. Per quanto riguarda quest’ultimo, da quando di recente paesi avanzati dell’area mediterranea e del medio oriente, come Italia, Grecia, Spagna, Turchia, si sono strutturati riguardo al proprio patrimonio artistico e un apparato statale robusto ha definito regole e leggi precise, non ci sono più dubbi sulla illegalità di tale mercato. Diverso, semmai, il discorso degli scavi clandestini che, fino alla fine degli anni 60 e anche in seguito, hanno prodotto mercanti senza scrupoli e acquisti perlomeno incauti, purtroppo anche da parte dei musei. Ora, è vero che sarà difficile fermare il singolo tombarolo, ma magari si può impedire che il traffico clandestino alimenti il mercato di reperti, ad esempio in Svizzera, con successivo proseguimento in Usa o Giappone. Ma a questo deve pensare la legge, che deve impedire ogni tipo di ricettazione”.
Lei si riferisce alle leggi odierne. Ma per il passato?
“Facciamo il caso dell’Italia, ma anche della Grecia o della Turchia. Pensiamo a cosa accadrebbe se noi chiedessimo indietro tutto il vasto patrimonio che viene da casa nostra e intimassimo al Louvre di renderci tutto quello che, tralasciando pure il periodo napoleonico, era stato commissionato o comprato dai re di Francia. Si potrebbe dire che diversa è la storia dei marmi del Partenone, sebbene questi non sianostati portati via dagli inglesi ma regolarmente acquistati ai tempi dell’impero ottomano, sia pure, come si obietta, in modo rocambolesco, corrompendo un funzionario turco. Ma non è questo il punto. Mi sembra di poter dire tranquillamente che il mercato clandestino è altra cosa e va fermato. Ma restituire quello che è da secoli nei musei stranieri mi sembra complicato. Vorrei mettere un punto fermo, quando andiamo indietro nel tempo”.
Ovvero dichiarare un prima e un dopo?
“Penso che bisognerebbe tirare una riga cronologica che separi ciò che è avvenuto prima e dopo le convenzioni che sono intervenute per lo più a partire dagli anni Novanta, con accordi presi in primo luogo fra importanti musei archeologici europei, a cominciare da quelli di Berlino. Una riga si deve tirare, sennò si va avanti all’infinito. Le istituzioni italiane si sono mosse e hanno trovato un accordo con i colleghi dei paesi che avevano opere nostre. L’esito più rilevante di questi contatti è stata la Convenzione sui beni culturali rubati o illecitamente esportati, firmata a Roma nel 1995 e ratificata dall’Italia con una legge del 1999, in base a cui sono stati restituiti al nostro paese beni detenuti da musei berlinesi e statunitensi. Ma già in precedenza va ricordato anche il ritorno in Italia dello straordinario vaso attico di Euphronios, e numerosi altri casi del genere”. Il problema coloniale è molto grosso, comprende oggetti importanti come i bronzi del Benin, i manufatti presi dalla Germania in Namibia e quelli straordinari, originari dell’Oceania, dell’Africa, dell’America che sono oggi al Musée du quai Branly a Parigi. Oggetti che derivano o da possedimenti coloniali o da commerci di vario tipo. E’ vero che vanno deprecati gli orrori anche culturali del colonialismo, ma mettiamoci un punto. Noi abbiamo restituito all’Etiopia l’obelisco di Axum che era finito a Roma davanti alla Fao, ma è stato piuttosto complicato. Cosa facciamo? Continuiamo su questa linea? E cosa devono fare fanno il museo Guimet delle arti asiatiche a Parigi, il museo egizio di Torino o anche il Louvre o il British Museum, che hanno opere stupende? ”.
Dunque le peregrinazioni artistiche con ormai sopra di sé il segno della storia e delle consuetudini restano dove sono ?
“Quando penso che vada tirata una riga non si tratta né di eurocentrismo o di occidentalismo, figuriamoci. Si tratta solo di criticare una faciloneria che affronta in maniera rischiosa problemi complicati. Come è della massima evidenza che la questione del Partenone di Fidia sia fuori scala rispetto agli altri esempi. Come peraltro, però, lo è anchel’Altare di Pergamo custodito al Pergamonmuseum al centro dell’isola dei musei di Berlino, costruito proprio allo scopo di accogliere i reperti provenienti dagli scavi archeologici promossi dai musei di Berlino a partire dll’Ottocento, soprattutto in Grecia e in Turchia. Lo ridiamo alla Turchia? E cosa facciamo dei marmi di Egina a Monaco di Baviera? E’ un problema economico, ma anche culturale. L’Altare di Pergamo era nato in un altro contesto, ma ora fa parte del contesto di Berlino. Non considerare il contesto porta a una deriva che provoca molti altri equivoci, come quello di chi voleva abbattere il monumento a George Washington perché aveva gli schiavi, quando tutti i bianchi ricchi li avevano in un determinato contesto storico. Pur mantenendo il giudizio sulle varie vicende, io sono tra gli archeologi che sostengono la teoria del contesto. Certamente se ne deve discutere e le grandi istituzioni internazionali devono istituire tribune per sviscerare a fondo il contesto economico-culturale: dall’Unesco agli altri organismi sovranazionali. E’ chiaro che per esempio gli stati africani depredati, che tanto hanno sofferto per via del colonialismo, hanno ragione se protestano, ormai però, o si tracciano delle righe, o non si va avanti. Ma è giusto che l’Unione europea ne discuta, altrimenti manca a una sua essenza, a un suo dovere politico-culturale: non può fermarsi solo all’economia, all’unità non basta l’euro. D’altronde su cosa l’Europa deve fondarsi se non sull’unità culturale, visto anche che in fondo siamo i stati i principali paesi produttori di opere d’arte?