Renato Severino, “lupo solitario” dell’architettura italiana: “L’Italia un Paese che dorme”

Firenze –  Renato Severino, lo dice lui stesso, è stato spesso “un uomo antipatico”. Ora che vive da dieci anni in una sorta di splendido isolamento a Firenze, la città della sua infanzia e dei suoi studi di laurea, “ignorato” dall’Accademia ufficiale tranne qualche iniziativa in cui la sua architettura, dove estetica e tecnologia sono due facce della stessa medaglia, torna a riverberare luce e genio sul pubblico, continua a guardare con occhio lucido al mondo dell’innovazione e dell’Università, dove, non si perita a dirlo, “i ragazzi cominciano a costruire qualcosa a trent’anni”, entrando troppo tardi nel mondo reale, facendo ristagnare energie e idee troppo a lungo, nella cappa “di un Paese che sembra addormentato”.

Altra temperie, del resto, ha visto Renato Severino, raro esempio di architetto internazionale non solo perché internazionalmente conosciuto, quanto perché buona parte della sua vita è trascorsa nella pancia di quegli aerei che lo portavano in giro per l’emisfero occidentale, compresa l’Africa. Laureatosi a Firenze nel 1954, a soli 34 anni progetta il più grande campus universitario del’Africa sub-sahariana a Cape Coast, Ghana. Fra il 1960 e il ’63 progetta e costruisce, a Cesano Torinese, la Colonia Italsider, per ospitare i figli dei dipendenti durante l’estate. La sua opera fa il giro d’Europa. Dagli Stati Uniti, dove si trasferisce nel 1968, la sua attività si spande in tutto il mondo, con costruzioni in America Latina, America centrale, Nord America, Africa ed Europa. Nel frattempo, continua la sua ricerca e le sue pubblicazioni sulla sostenibilità e i sistemi industrializzati. Tutto ciò si condensa in un libro, pubblicato nel 1970, Equipotential Space, che è una sorta di manifesto del suo pensiero: uno spazio fluido, continuo, dinamico, il perfetto controcanto di una società “libera”.

Adalberto Libera (che è stato non solo suo professore all’università, ma anche mentore, promoter, maestro) Pierluigi Nervi, Bruno Zevi i suoi “maestri” ma anche partner economici e amici.

“Dall’esperienza con Pierluigi Nervi ho tratto il gusto e la capacità del costruire conoscendo tecniche, innovazioni, modalità”, racconta. Un gusto che tornerà poi, nelle realizzazioni delle sue opere “sociali”: “Insegnavamo l’autocostruzione ai messicani – racconta- a quelli che poi avrebbero abitato le case di edilizia popolare che stavamo costruendo”. Moduli prefabbricati che venivano “riempiti” col lavoro della gente, capacità di trasportare in sede social-economica intuizioni e tecniche, i due binari che hanno sempre rappresentato la cifra di questo protagonista del periodo a cavallo del grande cambiamento mondiale che si realizza fra gli anni ’60 e la fine del secolo.

Un lupo solitario, dice qualcuno. Sì, forse. Sicuramente nella misura in cui i suoi anni di lavoro sono trascorsi in buona parte lontano dall’Italia. Ma è qualcosa di più, come riconosce egli stesso, quando, ripensando alla sua straordinaria parabola, dice: “Non ho avuto in verità dei soci al mio livello, mi è mancato questo”. Del resto, Renato Severino è uno dei primi (ed è in questo, forse, che paga il prezzo della solitudine, in questo essere “primo” in svariati campi) a rendersi conto che il global warming e la conseguente necessità di ripensare il modus construendi dell’architettura diventa un impegno che somiglierà, negli anni a venire, sempre di più a un obbligo. Progetta e costruisce una delle prime case “ecological” negli Stati Uniti. Anno: 1978. A questo proposito, ecco un gustoso aneddoto, appreso dalla viva voce di Severino: “Mi trovavo a tenere delle lezioni alla Yale University, dove affrontavo spesso proprio il global warming”. Alcuni studenti (si trattava di un corso di specializzazione, cui avevano accesso le menti migliori e più brillanti ) si recarono a lamentarsi delle lezioni del professore italiano presso la direzione dell’Istituto universitario, adducendo che il tema trattato fosse piuttosto “fantasioso”. Severino terminò le lezioni e la collaborazione. Qualche anno più tardi, a un convegno sul global warming e le sue implicazioni, a tenere la relazione ritrovò proprio uno studente, ormai laureato e importante professionista, del gruppetto che aveva portato le proprie lamentele presso la prestigiosa università americana.

Solo un aneddoto, uno dei tanti. Del resto, come ricorda lo stesso Severino, “negli anni ’60 si affrontarono i problemi su una scala nuova, fin lì sconosciuta. Cominciava un nuovo mondo: i primi anni ’60 fu come se abbattessero una barriera, esplose la voglia di internazionalità, anche se in Italia, a dire la verità, non cambiò granché”. In Italia forse, ma nel mondo invece la grande onda del ’68 stava preparandosi a ruggire. E di lì a poco, ecco che Severino, nel ’70, dà alle stampe forse il suo libro fondamentale, fra i saggi di cui è autore  (Totaler Raum, 1971, Meta-realism in Architecture, 1995, senza contare articoli e interventi nelle riviste del settore) Equipotential Space, Freedom in Architecture,  che traduce in architettura la nuova voglia di libertà che travolge il mondo; e mentre in Italia il conservatorismo e la poca accortezza della dirigenza politica si accompagna all’esplosione funesta del terrorismo, ecco che il libro di Severino configura lo spazio flessibile, due sottosistemi che formano l’Uno, non agganciati a definite funzioni precise ma passibili di elasticità e definizioni dinamiche. Il che significa che l’uomo può accogliere il cambiamento come fenomeno quotidiano di gestione dello spazio, certo, ma anche di se stesso e della sua storia. Rivoluzionario.

Lasciando al bel libro uscito quest’anno “Building in the western Hemisphere – 1959-1989”, curato magnificamente dall’architetto e scrittrice Cristina Donati, l’approfondimento tecnico, artistico e professionale della figura del “lupo solitario” Renato Severino, chiudiamo con una battuta che il Maestro lascia cadere a proposito di quegli Usa in cui ha tanto vissuto e dei nuovi tempi che stiamo vivendo: “Trump? L’ho conosciuto. In altri tempi, non sarebbe stato preso neppure in considerazione per la Casa Bianca”.

foto: particolare tratto dal libro: “Building in the western Hemisphere – 1959-1989”, Altralinea edizioni, 2016

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