Regole per ritrovare la cultura del cibo al di là di mode e coercizioni

Il caos alimentare rappresenta la perdita di riferimenti in ambito sociale

Jean-Anthelme Brillat Savarin, insigne magistrato e scrittore, nonché cultore della buona tavola, nel 1825 pubblicò un volume destinato a diventare una vera e propria pietra miliare nella cultura del cibo: “La fisiologia del gusto” in cui definì la gastronomia come la “scelta ragionata di tutto ciò che si riferisce all’uomo in quanto essere che si nutre. Il suo scopo è di provvedere alla sopravvivenza degli essere umani attraverso la migliore alimentazione possibile”. Un’opera che, andando oltre la mera ricetta culinaria, ne ampliava il significato legandolo alle modalità di scelta e preparazione dei cibi, al loro succedersi durante i pasti, all’accompagnarli con la bevanda adeguata per valorizzarli e via dicendo.

Insomma, un insieme di aspetti che scavano nei significati del rapporto quotidiano con gli alimenti e l’alimentazione, tanto da rendere il volume di Savarin un’opera cui è attribuibile spessore antropologico, un’opera dove l’autore in maniera piacevole, talvolta addirittura ironica, racconta il cibo secondo valori ben più significativi del mero gesto di portare un nutrimento alla bocca, dal momento che il modo in cui si fa rappresenta un mondo, tanto variegato e interessante per quanti sono i luoghi e i tempi in cui è preparato e consumato: considerazione, questa, che diventa tanto più attuale quanto più ci muoviamo nel mondo del consumismo e della globalizzazione.

Il cibo va considerato nella sua dimensione più vasta, quella in cui non ci si limita a sentirne il gusto solo attraverso le papille, bensì si arrivi a conoscerlo per mezzo di in un approccio totalizzante, attraverso una sensorialità in cui udito, vista, tatto, olfatto coinvolgono offrendo la percezione aumentativa del gusto, quella che genera esperienze affascinanti in cui cultura, tradizioni, umanità, vale a dire le tendenze culturali orientative di una data tipologia alimentare.

Sotto questa prospettiva, il piacere del gusto nella gastronomia può facilmente scivolare verso antipatiche forme di gastro-anomia – neologismo coniato dal sociologo Vanni Codeluppi – quando le persone sono sottoposte a stimolazioni, anche fortemente contrastanti perché cariche di emozionalità che generano smarrimento: uno stato dal quale non è facile potersi identificare con il proprio – o con altri – gruppi sociali, dal momento che consegue al “disadattamento provocato dalla mancanza di regole”, dallo stato di anomia definito dal sociologo Èmile Durkheim studiando da vicino l’aspetto antropologico della società, e quindi delle regole che la definiscono. Concetto che si trova perfettamente a suo agio se messo a “nuotare” fra i burrascosi fluidi che agitano l’epoca in cui viviamo, quella che che il sociologo Zygmunt Bauman, proprio per la mancanza di coesione, ha definito “liquida”.

Una disgregazione che – in ambito alimentare – moltiplica tendenze dal sapore propriamente modaiolo che si preoccupano troppo poco della salute, o comunque lo fanno in maniera spesso superficiale germogliando da credo animati magari da buone intenzioni, ma talvolta degeneranti in forme di idolatria poco credibili. Da qui la rinata attenzione alla sociologia dell’alimentazione che, negli ultimi 30 anni, ha analizzato componenti sociali, economiche, sanitarie da cui si sviluppano le nuove culture alimentari che, in ogni caso, esprimono il tentativo di ricostruire il proprio “sé” anche attraverso un procedimento di identificazione con un dato regime alimentare. Un’identificazione che, se viene meno, può generare atteggiamenti che manifestano vere e proprie patologie: anoressia e bulimia sono le più note, ma anche binge eating, ortoressia nervosa e comportamenti parasalutisti che inducono – spesso inconsapevolmente per chi decide di adottarli – all’adeguamento verso stili di consumo emotivamente destabilizzanti.

Interessanti da approfondire sarebbero i percorsi attraverso i quali vengono abbandonate scelte alimentari tradizionali, quelle basate su logiche di stagionalità, territorialità, storicità, quindi non condizionate dall’efficacia di slogan più o meno riusciti che ne promuovono le qualità: ma la riflessione sulla quale invitiamo a soffermarsi si riferisce all’epoca che stiamo vivendo, agli enormi sviluppi registrati da tecnologia e medicina, dalla quantità esagerata di cibo di cui disponiamo – seppure con forti disparità –, e dagli effetti che tutto ciò ha avuto su due aspetti del quotidiano individuale. Da un lato c’è la diversa percezione della salute, dall’altro le potenzialità coercitive che hanno esercitato, e il risultato è espresso da quanto dicevamo prima, da un caos alimentare che rappresenta la perdita di riferimenti in ambito più largamente sociale.

Proprio per questo diventa doveroso ricordare che dal cibo dipende la nostra salute, e il discorso vale non solo se riferito alla qualità intrinseca degli alimenti, ma anche al loro contenuto di rappresentazione socio-culturale. Abbracciare il significato simbolico che ciò rappresenta come rito che l’umanità da sempre compie allo scopo di mantenersi in vita e in salute, significa anche aprirsi alla comprensione de l’“altro”, chiunque questo sia perché questo “altro” ha modo di manifestare il proprio essere anche attraverso le sue modalità a tavola.

E come i Cavalieri di Re Artù insegnato, l’abbraccio migliore si esprime dove nessuno siede a capo tavola, e sedersi intorno a una tavola rotonda per consumare insieme il cibo è la rappresentazione più efficace di convivialità.

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