Un tempo Reggio era conosciuta come l'”isola felice”. Forse c’era in questa definizione una nota di edonistica esagerazione, ma i motivi d’orgoglio non mancavano. Dalle macerie lasciate dalla guerra i reggiani sono stati capaci di costruire un’economia forte: un solido sistema cooperativo e una produzione manifatturiera tra le prime del Paese hanno fatto da traino allo sviluppo per decenni, garantendo un benessere diffuso. Servizi e welfare sono stati a lungo considerati tra i migliori d’Italia. Oggi, in un mondo alle prese con una crisi globale, cosa resta di quell’isola felice oltre al racconto autocelebrativo di un potere che non ha mai conosciuto una vera alternanza in mezzo secolo di storia? Questa è una mappa (parziale) della crisi vista attraverso i pilastri dell’economia locale.
Iren – Un tempo si chiamava Agac ed era un modello di efficienza che ci invidiavano anche all’estero. I conti erano a posto e la gestione del gas e delle reti idriche aveva una dimensione locale. Poi qualcuno ha cominciato a sussurrare che per restare sul mercato era necessario allargarsi. Dalla fusione delle azienda di Reggio, Parma e Piacenza nasce Enìa che il 10 magio 2007 debutta in Borsa. A Reggio si stappano bottiglie: solo il Comune, che detiene il 30,75% dell’azienda, guadagna 5 milioni di euro. Seguono quasi due anni di grandi soddisfazioni, con le azioni che toccano quota 12 euro. Poi arriva lo shock del 2009, i mercati crollano, Enìa nel frattempo si fonde con Iride (la multiservizi di Genova e Torino), ma il titolo in Borsa continua a perdere terreno. Oggi le azioni Iren valgono 0,54 euro e l’azienda ha un indebitamento che supera i 3 miliardi.
Fondazione Manodori – E’ l’emblema di ciò che possono fare la cattiva politica unita all’avventurismo finanziario. Nel corso di quasi due secoli ha finanziato migliaia di progetti e opere benefiche, è stata un fiore all’occhiello della città. Ma oggi resta ben poco. Se nel 1999, l’anno della fusione con Bipop Carire, il patrimonio della Fondazione Manodori ammontava 859 milioni di euro, oggi non arriva a 200 milioni. In 12 anni sono andati in fumo 661 milioni di euro. Anche la liquidità dell’ente è ridotta al lumicino: alla fine del 2010 sui conti correnti c’erano 16 milioni e 800mila euro, oggi in cassa c’è poco più di un milione. Le sorti dell’ente sono legate strettamente a Unicredit, il principale istituto di credito italiano nei cui titoli la Fondazione ha investito la quasi totalità delle risorse. Dall’inizio della crisi, il valore delle azioni della banca è crollato mandando in fumo il patrimonio della Manodori.
Il sistema cooperativo – Un tempo l’architrave dell’economia reggiana, oggi la cooperazione arranca sotto i colpi della crisi. A pagare sono soprattutto i colossi dell’edilizia a causa della frenata del settore e dei ritardi nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni: Coopsette, Cooperativa Muratori Reggiolo e Orion hanno fatto ricorso al concordato preventivo e le prospettive non sono buone. La situazione più pesante è quella di Coopsette, un gigante del settore ha oltre 400 milioni di debiti con banche e fornitori. La crisi ha generato un effetto domino che sta spazzando via un intero indotto e migliaia di posti di lavoro. Problemi anche per Coopservice che sta operando tagli significativi nel comparto della logistica.
Teatri – La città vanta una lunga tradizione teatrale. Ma anche per la cultura sono tempi bui. Dopo la recente uscita di scena, con coda polemica, del direttore artistico dei teatri reggiani Daniele Abbado, nuove ombre si allungano sulla Fondazione. Nonostante le rassicurazioni dell’assessore Giovanni Catellani, che ha garantito sul futuro dell’ente, i bilanci sono in sofferenza. Per il 2013 la riduzione di risorse è stata pari a 750.000 euro. Riduzione da imputare al venire meno di finanziamenti da parte di vari soggetti pubblici e privati, fra i quali la Provincia e la Camera di Commercio.
Le Fiere – La situazione delle Fiere di Reggio – società partecipata da Camera di commercio (27%), Comune di Reggio (25%), Provincia (15%) – è drammatica: 19 milioni di euro di debiti, 4 dipendenti licenziati in tronco e una procedura di concordato preventivo che rappresenta una corsa contro il tempo. Il piano di rilancio – o meglio, il reperimento dei soldi necessari per non fallire – passa attraverso una strada molto stretta: la dismissione di terreni e fabbricati in un momento in cui il mercato non è favorevole. Nel frattempo è in corso una battaglia giudiziaria tra gli ex dipendenti licenziati e la dirigenza. Nessuno a livello politico si è ancora assunto la responsabilità del disastro. Eppure risale ad appena 2 anni fa la fusione per incorporazione di Siper in Sofiser (società partecipate dal Comune di Reggio), con la conseguente creazione della nuova società Reggio Emilia Fiere srl. Nonostante i problemi economici non fossero sconosciuto dal Comune si parlava allora di “rilancio e l’innovazione del polo fieristico reggiano, un’Expo Mediopadana fra gli elementi propulsori dell’Area nord di Reggio Emilia”.
Confapi – L’anno nero 2012 ha segnato anche la fine di Confapi, la Confederazione italiana della piccola e media industria. Confapi è infatti confluita in Assindustria e dalla fusione è nata Unindustria. Una mossa dettata dalla difficilissima congiuntura economica che ha colpito soprattutto le pmi, travolgendo anche l’azienda del marito della presidente di Confapi Cristina Carbognani, l’ex Medici di Vezzano Sul Crostolo.