Firenze – Un oceano attraversato da un’onda anomala, uno tsunami. Vannino Chiti senatore del Pd già presidente della Regione Toscana utilizza questa metafora marinara per descrivere la situazione nella quale si trovano L’Europa e l’Italia. In questo oceano tempestoso i cittadini italiani voteranno domenica per il referendum confermativo della riforma costituzionale: “Se vince il Sì abbiamo una nave più robusta e si può fare una navigazione più sicura. Se vince il No si getta via il timone e si apre anche qualche falla. Si crea un vuoto politico che può danneggiare il nostro paese e non vorrei che peggiorasse la situazione”.
Chiti è impegnato duramente nella campagna del fronte favorevole alla riforma approvata nell’aprile scorso. Di fronte alle riforme del nostro sistema istituzionale prima si è battuto per correggere la nuova legge elettorale che non ha votato poi, una volta che il partito ha trovato un accordo sui punti essenziali da modificare, si è lanciato sempre più apertamente per promuovere le ragioni del Sì.
Per ribadire la coerenza della riforma con l’azione politica della sinistra degli ultimi anni e dunque in polemica indiretta con gli esponenti del suo partito schierati per il No, il senatore sottolinea che quanto votato con tre letture in Parlamento corrisponde ai programmi delle passate coalizione:
“Con la riforma – dice – si elimina la funzione identica di Camera e Senato e questo obiettivo l’Italia lo sta perseguendo dal 1983, anno della prima bicamerale. Era nelle tesi dell’Ulivo del 1996, quando Romano Prodi era candidato alla presidenza del Consiglio con vicepresidente Walter Veltroni e il segretario del Pds era Massimo D’Alema mentre Marini era quello dei Popolari. Questa stessa impostazione è stata votata nel 2007 dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera e non ebbe in quella votazione nessun voto contrario, si astenne Forza Italia e l’Unione votò a favore. Era stata firmata dal Pd, Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi, Italia dei valori e Udeur”.
Uno degli aspetti della riforma sui quali più si appunta la polemica elettorale riguarda le funzioni e le politiche regionali che i contrari bollano come un passo indietro nel processo di decentralizzazione
Si ritorna a un aspetto della Costituzione del 2001 quando si cambiò il titolo V. Una riforma che non ha funzionato perché ha creato un mix di competenze e statuti nelle varie regioni e una legislazione concorrente con lo Stato. In alcuni campi si è venuto a formare un vestito di “arlecchino” istituzionale in settori come la sanità, le politiche europee, il trattamento dei consiglieri al punto che sembra di essere tornati agli staterelli del XIX secolo. E’ normale che vi siano regioni come Toscana ed Emilia Romagna e presto il Lazio che richiedono le vaccinazioni obbligatorie e regioni che non lo fanno? Insomma ha dato luogo a contenziosi infiniti che ora si superano. Comunque nella riforma è previsto che una regione che ha il bilancio in ordine e che è in condizione di efficienza per assumere competenze può chiederlo e la decisione spetterà alla Camera e al Senato composto da Sindaci e consiglieri regionali.
Ma quale potrebbe essere la strada per avere un vero federalismo?
Bisognerebbe che non ci fossero 20 regioni più due province autonome ma, come si diceva negli anni 90, 10-12 regioni. Perché per funzionare il titolo V ha bisogno di regioni con oltre 2,5 milioni di abitanti. Si può avere non un regionalismo, ma una tendenza federalista solo se c’è il coinvolgimento e il consenso ampio dei cittadini.
Lei si è battuto da subito per modificare l’Italicum e le sue proposte sono alla base dell’accordo all’interno del suo partito. Cosa accadrà se vince il Sì?
Ci sarà da mettere subito mano a due leggi elettorali. Cioè per l’elezione di 74 senatori, i consiglieri regionali che cambiano via via che si rinnovano i consigli delle regioni. Nell’Italicum c’è poi da correggere due aspetti che sono il motivo per cui non l’ho votato: i capilista che non vengono sottoposti al voto dei cittadini e le pluricandidature, nonché il premio di governabilità assegnato a una lista senza possibilità di formare coalizioni. La nostra proposta è quella dei collegi uninominali, via i capilista non votati e diamo governabilità a chi arriva prima, la lista o la coalizione. Per il senato si voterà come si votava fino al 1992 con due sole novità: per essere candidato al senato bisogna esserlo anche al Consiglio regionale e si potrà avere 18 anni. Non fa male all’istituzione la possibilità di un ringiovanimento.
Non teme dunque quello che è stato definito il “combinato disposto” fra riforma elettorale e riforma costituzionale foriero di scossoni politici imprevedibili?
Nel settembre 2015 abbiamo votato il disegno di legge costituzionale quando l’Italicum era già stato approvato. Chi aveva paura del combinato disposto doveva intervenire prima. Ma non ci sono combinati disposti. Se vincerà il sì la Corte costituzionale sarà sempre obbligata, su richiesta di una minoranza parlamentare, a dare giudizi di costituzionalità prima che le leggi elettorali entrino in vigore.
In ogni caso il Senato disegnato dalla riforma non piace al fronte del No, sia per come vengono scelti i senatori che anche per il doppio lavoro che sindaci e consiglieri regionali dovranno svolgere…
Intanto si deve dire che non c’è alcun pericolo di paralisi dell’attività. In Senato si lavora per sessioni e per lavoro di commissione. E dunque è facile stabilire un’organizzazione che è compatibile con la presenza per svolgere la propria attività. Poi ricordo che nel programma dell’Ulivo 1996 – 2006 prevedevamo esattamente che la seconda camera fosse così composta. Poi diamo uno sguardo ai parlamenti europei. In Francia il Senato ha competenze e funzioni di rilievo ma non dà fiducia al governo. Nell’Unione Europea su 28 paesi, 15 hanno una sola camera, degli altri 13 solo uno, l’Italia, ha due camere con le stesse funzioni.
Ora cosa accade?
Il nuovo Senato ha compiti uguali a quelli della Camera sui cambiamenti della Costituzione, sulle leggi regionali e dei comuni, sui referendum e sui trattati e rapporti internazionali. Non dà la fiducia, ma avrà un compito che finora mancava al Parlamento, il controllo delle politiche pubbliche. Nei programmi dell’Ulivo e dell’Unione si diceva proprio questo e cioè che il Senato deve avere il controllo su come funzionano le leggi e come si spendono le risorse fondi europei. Aggiungo che al senato avranno accesso personalità che hanno a cuore la vita dei comuni e delle regioni. Finora il contenzioso tra regioni e stato è stato sempre risolto a favore dello stato.
In ogni caso gli avversari della riforma insistono sulla possibilità di derive autoritarie nel momento in cui si interviene sulla Carta costituzionale.
Rischi inesistenti. Guardiamo per esempio l’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali che avrà maggiore garanzia di democraticità, più di ieri. Ora basta la maggioranza assoluta dopo la IV votazione e in assenza di leggi elettorali proporzionali questo mette il presidente nella mani di chi vince le elezioni. Ora non ci sarà più la maggioranza assoluta: dopo la richiesta dei 2/3 ci vorranno i 3/5 dei componenti e poi dalla settima votazione i 3/5 dei votanti. Anche se non venisse cambiata la legge elettorale il presidente non potrebbe mai essere eletto senza il concorso insieme alla maggioranza di un paio di gruppi dell’opposizione. Senza dimenticare che per la prima volta viene scritto lo statuto della opposizione, con due possibilità di quorum per il referendum abrogativo. Se con queste misure si parla di possibili derive autoritarie si dovrebbe arrivare a dire che Mussolini aveva mandato Gramsci in villeggiatura.