Firenze – Valdo Spini, ex-ministro, figura chiave della sinistra riformista, è stato sin dall’inizio un dichiarato e convinto sostenitore del No alla riforma costituzionale che il 4 dicembre verrà sottoposta a quesito referendario. Un’opposizione, la sua, lontana dalle polemiche e dagli acuti di questi ultimi giorni, ma non per questo meno convinta e determinata. Fra i vari appuntamenti cui Spini ha partecipato appoggiando la campagna del No, fondamentale per importanza è quello che si terrà lunedì prossimo 28 novembre (domani), alla Sala Verde del Palazzo dei congressi, organizzato dal Mal, il Movimento di Azione Laburista, alle 17, cui interverranno, oltre a Valdo Spini, Paolo Caretti e Roberto Speranza. Introducono il dibattito, dal titolo “Democrazia e costituzione”, Filippo Fossati e Andrea Puccetti.
Onorevole Spini, quali sono i punti focali che la inducono a dichiararsi per la bocciatura della riforma?
“In sintesi, ritengo che ci siano almeno tre buone ragioni per votare No a questa riforma della Costituzione: No nel merito, No per il conseguente quadro politico-istituzionale che verrebbe a crearsi, No per le prospettive del dopo voto referendario”.
Il merito è uno dei punti su cui il fronte del Sì ha attaccato più a fondo, argomentando che la riforma non porta all’autoritarismo del sistema e non esclude la sovranità popolare; anzi, la rafforza rafforzando nel contempo la stabilità del governo.
“Una premessa: le lacune e l’incongruenza della riforma non sono dato nuovo, dal momento che erano già state messe in rilievo sin dall’aprile scorso dall’esame di 50 costituzionalisti del calibro di Ugo De Siervo e Enzo Cheli. In sintesi, si dichiara di abolire il “bicameralismo perfetto” ma non si viene a costituire un senato delle regioni “alla tedesca” né lo si abolisce del tutto, costruendo un sistema monocamerale. Si giunge invece a mettere in campo un tertium genus, in cui il mantenuto senato non si sa come verrà eletto se non che lo sarà dai consigli regionali, fra i consiglieri regionali, più un sindaco della regione interessata. E le funzioni? Concorrerà in determinate materie all’attività legislativa, ma non alla definizione dei poteri delle regioni. La riforma è fatta male perché frutto di troppe spinte tattiche e contingenti. Ad esempio, chi ci spiega la ratio di tenere dentro un Senato delle Regioni 5 senatori di nomina presidenziale? Argomento debole anche quello del taglio dei costi della politica: si diminuisce il numero dei senatori ma non quello dei deputati, col risultato che il “taglio” del costo delle istituzioni (attenzione, non della politica!) è molto modesto, non solo, non è né razionale né organico”.
Ma per lei esiste il rischio di ritrovarci con un sistema più autoritario e meno garantito per quanto riguarda la democrazia?
“Per risponderle, devo prima toccare un elemento non trascurabile anzi fondamentale, vale a dire la legge elettorale. E’ vero che la legge elettorale non è oggetto di referendum, ma è anche vero che questa riforma è stata formulata in funzione della legge elettorale approvata, l’Italicum, su cui peraltro pende un giudizio di costituzionalità rimandato dalla Corte Costituzionale a dopo il referendum. Tralasciando il Senato, le cui criticità abbiamo già indicato, come verrebbe eletta l’unica camera che avrebbe il potere di conferire o negare la fiducia al governo? Italicum vigente, il partito che consegue il 40% dei voti ottiene un premio che lo porta al 55% dei seggi. Se nessuno ottiene il 40%, si va al ballottaggio, il cui esito è comunque il 55% alla lista vincente. Inoltre, tutti i capilista dei vari partiti sarebbero designati e sottratti alle preferenze, cui invece rimarrebbero assoggettati gli altri candidati. Tiriamo le fila: la lista vincente avrebbe cento deputati nominati dal segretario del partito di riferimento, i perdenti invece dipenderebbero dai collegi in cui scattano i loro seggi. Altra conseguenza? Il presidente del consiglio dei ministri verrebbe nominato dal presidente della Repubblica, di fatto nella persona del segretario del partito della lista vincente, e questi sarebbe sottratto all’elezione popolare. Se si guarda altrove, lo stesso primo ministro inglese deve essere eletto nel suo collegio elettorale, mentre nei sistemi semipresidenzialisti come la Francia o presidenzialisti come gli USA, il presidente viene eletto direttamente dai cittadini. Insomma, si avrebbe un presidenzialismo se non di diritto, di fatto”.
Un altro argomento su cui il dibattito si è infuocato è il “day after”. Cosa succederà il giorno dopo il voto?
“Le prospettive del dopo voto referendario non possono prescindere da ciò che si era già affacciato nelle scorse amministrative, vale a dire la sedimentazione di un sistema elettorale non bipolare bensì tripolare. Una prospettiva questa che non può non cambiare il segno all’ipotesi del ballottaggio, nel senso che quest”ultimo potrebbe riservare un’affermazione smisurata a una forza che potrebbe rappresentare poco più di un terzo dell’elettorato. Dissenso forte emerso in seno al Pd da un lato, critiche e presa di coscienza di questa realtà dall’altro, hanno aperto la strada in seno al partito di maggioranza alla costituzione di una commissione che ha aperto all’ultimo momento alla possibilità di modificare l’Italicum. Tirando le fila, la situaiozne che si presenta è questa: se vince il No, cade automaticamente l’Italicum; se vince il Sì, le sue eventuali modifiche sono legate alla volontà del presidente-segretario Matteo Renzi del Pd. Di conseguenza, se il combinato disposto legge elettorale-riforma costituzionale viene ritenuto un pericolo per la democrazia, rimane solo una possibilità per stare tranquilli: votare No”.
Ma come giudica la campagna elettorale e l’atmosfera che si respira nel Paese in questi ultimi giorni di attesa al voto?
“Penso che stiamo rimanendo nell’ambito del “dopo di me il Diluvio”. Ma questo induce a una considerazione generale: con ogni evidenza, non ci si doveva sentire molto sicuri della sostanza delle riforme se si è voluto annunciare che in caso di vittoria del No il presidente del consiglio Matteo Renzi si sarebbe dimesso, che il Pd non avrebbe tollerato “governicchi” e quant’altro, comprese le sventolate incertezze sul futuro della situazione economico-finanziaria del Paese. Certamente il presidente del consiglio attuale ha una figura politica molto spiccata, ma non può pensare di essere l’unico buon presidente del consiglio di cui dispone l’Italia”.