Firenze – Sabato e domenica prossimi gli elettori saranno chiamati a rispondere al quesito referendario che riguarda il taglio del numero dei parlamentari italiani. Stamptoscana ha raggiunto Maurizio Brotini, segretario regionale della Cgil in Toscana, per quanto concerne le ragioni del No.
Uno dei pilastri su cui è cominciata la campagna del Sì è senz’altro la convinzione che “bisogna cambiare”. Se non si cambia, si è conservatori e si vuole mantenere il Paese nello stato in cui è ora. Cosa può rispondere su questo punto?
In prima battuta, basta fare un’obiezione di buon senso: per il cambiamento è importante “il verso”. Se si sposa il principio del cambiare per cambiare, si finisce per avvallare i licenziamenti, la trasformazione di posti di lavoro da stabili in occupazioni non tutelate e transitorie, fino a dire sì alla sharing economy senza critiche nè tutele. I cambiamenti devono avere un segno positivo, non riportare indietro le lancette della storia. Quanto al punto specifico, c’è da rilevare che il referendum sul taglio dei parlamentari presenta almeno due grosse criticità, direi di metodo: dal momento che si parla di regole del gioco, il vulnus è già presente quando si lancia la definizione “proposta di governo”; poi, come dicono gli stessi sostenitori della riforma, non si può dire “questo non basta, fidatevi poi seguiranno le riforme necessarie”. Allora, su cosa si vota? Per dare il via al governo su qualcosa che non sappiamo? Credo si deba tornare alla prima obieizone: si tratta delle regole del gioco comune, non possono essere decise da un solo giocatore che inoltre chiede di avere le mani libere.
Un’altra obiezione, forse la più popolare, è quella che in questo modo, vale a dire tagliando il numero dei parlamentari, si riducono i costi della politica.
Anche qui, c’è un grosso fraintendimento. I costi della politica non possono essere ridotti riducendo la rappresentanza politica, perché questo contraddice con lo spirito della democrazia stessa, che dovrebbe essere rappresentativa il più possibile della società. Un principio così importante che non dovrebbe essere neppure in discussione il “costo” che questo comporta (è da dimostrare comunque che la dittatura o le forme antidemocratiche di governo siano meno costose per la collettività della forma democratica). Detto questo, ridurre i costi della politica significa agire in modo da tagliare le spese senza tagliare la democrazia. Ad esempio, perché non ridurre le indennità parlamentari? Perché non mettere un tetto alla spesa dei ministeri? Perché in certi ministeri si possono assumere funzionari senza limiti, magari pretendendo che la comunità nazionale paghi loro persino le lezioni private di inglese? Questo è spreco di soldi pubblici, mi sembra. E’ questa la politica che costa.
In sintesi, che significato ha votare No in questi frangenti politici ed economici?
Votare No in questo momento ha l’esatto significato di riaffermare la centralità del Parlamento. Soprattutto a fronte di chi vorrebbe ridurre la politica a un governare tramite decretazione d’urgenza in dispregio al diritto degli elettori di scegliersi partiti, deputati e senatori. Una questione che si aggancia perfettamente all’altra grande distorsione della realtà di cui si avvalgono i sostenitori del Sì, vale a dire che l’Italia ha il più grande numero di parlamentari rispetto agli altri sistemi democratici europei. Per fare il conto giusto, ad esempio rispetto alla Germania, dovremmo sommare nel numero dei “parlamentari” tedeschi anche gli eletti del Lander, non dimenticando che anche questi hanno potestà legislativa piena. Infatti, se si considerano parlamentari coloro che hanno potestà legislative, non possiamo definire l’Italia il Paese con più parlamentari, dal momento che nei paesi federali come la Germania, per rimanere in Europa senza prendere in considerazione gli Usa, si sommano tutti membri dei Lander che hanno potestà legislativa piena.
Ma in definitiva, secondo lei all’Italia serve una riforma costituzionale o no?
La riforma vera sarebbe quella di adottare una legge elettorale proporzionale, ripristinare il finanziamento pubblico ai partiti per ragioni di garanzia dell’accesso alla politica anche da parte di coloro che non appartengono a ceti benestanti. In questi anni si è visto che abolire il finanziamento pubblico ai partiti ha reso l’accesso alla politica una questione di censo. Il tema della democrazia effettiva gira in buona sostanza attorno alla possibilità concessa a tutti, di entrare nell’agone politico indipendentemente dal reddito di cui si trova a godere. Altro tema strettamente collegato, che discende da questo principio, è come ridare ruolo e funzioni alle assemblee elettive. Il taglio delle rappresentanze dei Comuni doperate negli anni ’90 non mi pare abbia conseguito vantaggi di velocizzazione e trasparenza dell’attività politico-amministrativa. Oltre a questo, vorrei porre l’attenzione sul pareggio di bilancio, da eliminare, mentre vorrei additare all’attenzione pubblica che sono ben due gli enti locali, province e città metropolitane, in cui i cittadini non scelgono più direttamente chi li governa, dal momento che ci troviamo di fronte a elezioni di seconda istanza.
Qual è la motivazione secondo lei più forte per votare No?
La motivazione più forte per il No è una motivazione democratica. Al centro della politica deve tornare la realizzazione sociale della Costituzione. Non dimentichiamo che i potenti possono fare a meno della politica e della democrazia, ma il popolo ha bisogno di istituzioni democratiche vigorose aperte per far valere bisogni e diritti. Da questo punto di vista, la riduzione dei parlamentari è il contrario, dal momento che non solo viene tagliata la rappresentanza, ma la prima conseguenza sarà il diminuito peso proprio dei territori più deboli e delle fasce sociali più deboli, secondo il principio, purtroppo mai smentito, che accede al potere chi è più forte economicamente.
Un altro punto a mio parere pericoloso per la tenuta democratica del Paese, è il fatto che indebolendo e delegittimando il Parlamento, si riattiva con forza la spinta dei presidenti di Regione che si ritengono alla stregua di governatori, mettendo in discussione l’unità nazionale. Un pericolosissimo piano inclinato per chi vuole l’elezione diretta del presidente della Repubblica e del Consiglio come garanzia dell’unità del Paese. Uno scivolamento fatale verso la Repubblica presidenziale. .
Infine, cosa pensa dei “correttivi” pensati nella proposta della nuova legge elettorale?
Prima di parlare d’altro, voglio sottolineare che persino i sostenitori del Sì dicono che questa riforma da sola non funziona. Ma se il correttivo è quello dei listini bloccati, dove finisce la scelta dell’elettore? Listini bloccati, niente preferenze, significa che chi siederà al Parlamento non rappresenta il popolo, ma sarà appannaggio di quei sette, cinque capipartito che daranno così il meglio nel mettere insieme 600 nominati e peones al posto dei rappresentanti del popolo italiano, come prospettato dalla proposta passata il 10 settembre alla commissione affari costituzionali della Camera. La proposta prevede un sistema proporzionale con sbarramento al 5%, liste bloccate e il “diritto di tribuna” (in sostanza le formazioni politiche che non raggiungono il 5% a livello nazionale e che in una o più circoscrizioni riusciranno ad eleggere uno o più rappresentanti, otterranno uno o più seggi a Montecitorio o a Palazzo Madama, ndr). Conseguenza? Semplice e ovvia: i segretari di partito nominano, decidono e controllano tutti i parlamentari.
Che fare? Noi proponiamo due opzioni: la reintroduzione delle preferenze in un sistema proporzionale, oppure un sistema proporzionale con una parte di lista bloccata, con la possibilità del voto disgiunto, come succede in Germania: collegi uninominali piccoli, che possano rinsaldare la conoscenza diretta del candidato, senza l’obbligo di votare partito e preferenza conseguente, ma aperto, appunto, al voto disgiunto.