Firenze – Si fa presto a dire Rei, vale a dire reddito d’inclusione, vale a dire la misura, operativa dal 1° gennaio 2018, che cerca di mettere anche l’Italia al passo con gli altri paesi europei per quanto riguarda le modalità di contrasto alla povertà. Tuttavia secondo gli operatori e i cittadini, la via per ottenere questa misura è non solo complicata, talmente selettiva che le situazioni di bisogno, anche quelle estreme, in realtà vengono solo sfiorate, ma è resa ancora più difficile dal caos in cui sono costretti a lavorare gli uffici del settore sociale dei Comuni, l’Inps e le associazioni di vario genere che aiutano i richiedenti a compilare la domanda. Caos che secondo la maggioranza degli operatori risulta inasprito dalla mancanza di organizzazione e formazione che avrebbe dovuto invece precedere la misura.
Intanto, vediamo precisamente cosa s’intende per Rei. E’ una misura di contrasto alla povertà il cui fine sarebbe quello di aiutare la famiglia a rischio di esclusione economico-sociale a superare la crisi. Per questo, oltre al beneficio economico, si compone di un’altra parte, che è quella del progetto “dedicato”.
Partendo dai requisti necessari per vedersi accettare la domanda (che, informano dall’Usb, pur essendo stata fatta partire dal 1° dicembre 2017 e prevedendo la possibilità di erogazione dal 1° gennaio 2018, ad ora sembra non abbia avuto ancora seguito concreto) il primo principio affermato è la base familistica, il che significa che i beneficiari della misura non sono le persone ma il nucleo famigliare. I requisiti della famiglia per accedere al Rei sono 4: presenza in famiglia di almeno un figlio minorenne; presenza di un disabile la cui inabilità sia media, grave o arrivi alla non autosufficienza e presenza nel nucleo di almeno un suo tutore o genitore; presenza di una donna in stato di gravidanza accertata, per l’accertamento dello stato serve la documentazione rilasciata da una struttura pubblica, insufficiente quella di un eventuale ginecologo privato; presenza di almeno un disoccupato involontario che abbia raggiunto almeno la soglia dei 55 anni. Per quanto riguarda l’Isee, quello in corso di validità al momento della domanda non deve superare i 6mila euro annui, mentre l’Isre (l’indicatore reddituale dell’Isee diviso la scala di equivalenza) non dev’essere superiore a 3mila. Inoltre, l’imponibile Imu, vale a dire il valore patrimoniale immobiliare diverso dalla casa di abitazione non deve essere superiore a 20mila euro, mentre i valori patrimoniali mobiliari (vale a dire conti correnti, libretti, titoli … ) non devono risultare superiori a 10mila euro, soglia che va ridotta a 8mila per una coppia e 6mila per un single. Inoltre è necessario che nessun componente della famiglia percepisca prestazioni di sostegno al reddito o altri ammortizzatori sociali, come potrebbe essere la Naspi, vale a dire la nuova assicurazione sociale per l’impiego, ovvero l’ammortizzatore sociale nato dal Jobs Act che da maggio 2015 ha sostituito Aspi e mini-Aspi. Ricordiamo che l’Aspi era l’ammortizzatore sociale istituito a seguito della riforma del mercato del lavoro (Riforma Fornero), che sostituiva la vecchia indennità di disoccupazione. Inoltre, il richiedente dev’essere cittadino italiano, residente in Italia da almeno due anni, oppure familiare di cittadino italiano o comunitario titolare di diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente. Se si tratta di cittadini stranieri, possono avanzare domanda solo se in possesso del permesso di soggiorno UE, solo per soggiornanti di lungo periodo, oppure il richiedente deve essere titolare di protezione internazionale (ad esempio, asilo politico). Infine, nessun componente della famiglia deve possedere auto o moto immatricolati per la prima volta nei 24 mesi precedenti la presentazione della domanda. La bicicletta non fa testo.
Approfondendo la natura del provvedimento, torniamo al punto della doppia composizione. Per accedere al beneficio economico previsto, è necessaria la sottoscrizione, da parte dell’intero nucleo famigliare, di un progetto creato ad hoc. Il progetto viene costituito sulla base di una valutazione multidisciplinare messa in atto da operatori sociali, identificati dai servizi competenti, che analizzeranno tutte le condizioni personali e sociali, il profilo dell’occupabilità, istruzione, formazione, reti familiari e sociali e condizione educativa. Una tappa complessa, che sottintende la capacità di un intervento allargato e interconnesso di varie competenze, tanto più che, se la “crisi” della famiglia è causata dalla mancanza di lavoro, il “progetto personalizzato” viene sostituito dal cosiddetto “patto di servizio”, che si risolve in un impegno ad accettare qualsiasi proposta di lavoro e dal programma di ricerca intensiva di occupazione. Profili questi che chiamano in causa i Centri per l’Impiego, che, al momento, almeno in Toscana, giacciono in un discreto caos. Osservazione non inutile, quest’ultima, in quanto il beneficio economico giungerà solo a seguito del progetto, o del patto di servizio. Quanto a quest’ultimo, qualsiasi inosservanza verrà punita con il decadimento del beneficio, mentre per il progetto, è in atto una “graduazione” delle sanzioni, che vanno dal dimezzamento della mensilità del beneficio economico alla prima assenza rispetto alle periodiche convocazioni cui è tenuta la famiglia beneficiaria, fino al decadimento del beneficio alla terza assenza.
Infine, per quanto riguarda il beneficio economico, ha la durata massima di 18 mesi e potrà essere “ripreso” per altri 12 mesi solo dopo una sospensione di 6 mesi. La legge non dice cosa succede se il periodo trascorre invano, senza che la crisi della famiglia si risolva (in particolare, sorgono dubbi quando ci si trova in presenza dell’handicap grave previsto dal provvedimento). L’importo, avendo riguardo al numero dei componenti e al massimo mensile, consta: per un beneficiario, 187,5 euro al mese; per due, 294,38; per tre, 382,5; per quattro, 461, 25; per cinque, 485, 411, che è la soglia massima erogabile.
La Toscana, a circa un mese dall’apertura delle domande per essere inclusi nel Rei, vale a dire nel reddito d’inclusione efficace dal 1° gennaio 2018 (le domande potevano essere fatte già a partire dal 1° dicembre 2017) si pone al sesto posto della classifica italiana (secondo i dati dell’Inps), con circa 4.130 domande al primo giorno del mese in corso. A prendere su di se’ il “peso” della redazione delle domande, che come abbiamo intuito sono parecchio complesse, sono i patronati e associazioni di varia natura, dai Caf ai sindacati, ecc. Gli uffici di riferimento sono quelli sociali del Comune di appartenenza, la legge prevede anche la formazione di apposite commissioni.
“Per quanto ci riguarda – spiega Emiliano Cecchi, Usb Firenze – dal primo dicembre si sono rivolti a noi circa un centinaio di persone, fra cui solo una cinquantina avevano le carte in regola per redigere la richiesta. A Livorno, dove la crisi è se possibile ancora più aspra, a dicembre le domande compilate erano già oltre cento”. Uno dei problemi prioritari rimane tuttavia la formazione degli uffici preposti all’accoglimento delle domande, tant’è vero che, a dicembre scorso, un richiedente che portava il modello compilato del Rei a un ufficio di un Comune della cintura fiorentina, si sentì rispondere che non potevano protocollare la richiesta in quanto “non ne sapevano niente”. Un problema in più che cade sui già congestionati uffici comunali e che poteva essere risolto, dicono dal sindacato, con un percorso di formazione ampio e precedente all’apertura delle domande. “La fretta è sempre cattiva consigliera”.
Ma il vero tema, alla fine, è se la misura sia davvero efficace per combattere la povertà che pur “stabilizzata” nell’ultimo anno come dice l’Istat, coinvolge in Italia 4 milioni e 742mila individui alla voce “povertà assoluta” e 8milioni 465mila in quella “povertà relativa”.
“Sebbene ancora gli effetti non siano analizzabili – rispondono dal sindacato – tuttavia alcuni elementi sono sfacciatamente negativi: intanto, per quanto riguarda riguarda l’occupazione, il Rei è un sistema che rischia, invece di proporre lavoro, di tenere la famiglia in un limbo per di più ben poco efficace, dal momento che il beneficio economico basso non è sostenuto, come nel resto d’Europa, da forme di reddito indirette”. Vale a dire, mentre Francia e Germania ad esempio integrano la bassa quota economica con la sospensione del pagamento delle bollette, i pochi soldi del sostegno in Italia non sono accompagnati da analoghe misure, finendo spesso nella voragine dei servizi essenziali (acqua, gas, energia). Inoltre, la base familistica su cui si fonda il reddito d’inclusione, che prende sempre a riferimento il nucleo famigliare e mai i singoli soggetti è secondo l’Usb, un altro elemento negativo, come d’altro canto lo sono il “condizionamento” che deriva dalla sottoscrizione dello stesso nucleo di accordi molto stringenti e severi, la temporaneità, la selettività della misura che si basa su requisiti di povertà estrema. “Insomma una misura presentata come universalistica, in realtà non lo è affatto”. Ma ciò che forse è più “pericoloso” per l’efficacia del provvedimento è proprio la complessità del “mondo” della povertà: basti pensare che le famiglie in povertà assoluta in cui tuttavia la persona di riferimento (chi porta reddito in casa) può contare su un’occupazione (working poor) sono, secondo l’Istat, il 6,4% sul milione e 619 famiglie che vivono in condizione di povertà assoluta in Italia (dati 2016). E, secondo la severa selezione richiesta dal provvedimento, c’è il rischio che a queste famiglie il Rei “non tocchi”.