E come potevamo noi cantare, con l’olio tunisino sopra al fegato? Alle fronde degli ulivi ondeggiavano al triste vento i cartellini col prezzo del nostro EVO italiano, ormai ingialliti dopo la lunga e triste attesa negli scaffali. Questa potrebbe essere la riscrittura della nota poesia del Quasimodo da parte dei nostri sconfitti produttori oleari del futuro, di fronte all’avanzata imperativa della produzione tunisina sancita dalla legge UE che prevede l’ingresso di ulteriori 35mila tonnellate l’anno di olio maghrebino. Che raccontata con questi toni, la storia potrebbe essere presa pari pari dall’ufficio stampa di Salvini e retwettata dai numerosi pugliesi, calabresi e siciliani che si sono improvvisamente sentiti moralmente chiamati a rispondere al proprio cuore improvvisamente tamburelleggiante (per venire incontro al folclore etnico) per il Carroccio, laddove il Tavoliere delle Puglie, quando si parla di interessi, non si schifa di sentirsi affratellato alla Padania tutta. Forse però è buon gioco fare qualche osservazione ulteriore, prima di pensare ad una specie di offensiva alimentare dell’ISIS direttamente sulla nostra insalata. A chi, improvvisamente, si trovasse a voler indossare il blasone dell’olio italiano – straordinario, inarrivabile, fantastico, inimitabile, messo a repentaglio dall’avanzata dei cattivi oli africani – basterebbe consigliare di recarsi presso i tantissimi piccoli e grandi oleifici nostrani ad acquistare il prodotto che preferiscono: dopotutto, chi ve lo impedisce? Nessuno vi vieta di esigere qualità e marchio; a patto, naturalmente, che siate disposti a sborsare il prezzo richiesto. Eh già, perché non potrete poi opporre la pretesa di portarvi a casa un litro di olio per meno di tredici, sedici, anche trenta Euro; da lesinare col contagocce, non certo come l’Aceto Balsamico Tradizionale ma, insomma, certamente da starci attentoni. Un po’ come quando i nostri genitori preparano la zuppa di ceci e poi, opplà! Una C veloce colla bottiglia dell’olio, e via, cucchiaio in resta. Perché l’olio, quello buono, costa salato. Da sempre: dai tempi degli antichi Romani, che per poter soddisfare la domanda italica sempre crescente dapprima crearono un giro di importazioni straordinario, superiore a quello delle granaglie e del vino e del sale – che è tutto dire, considerato che quando Cartagine si era messa di traverso nel commercio del sale la cosa aveva preso una piega non bellissima, poi cominciando a produrre direttamente all’estero per poi importare da questi avamposti vicini e lontani. Prime contrade colonizzate col l’ulivo da olio dagli italiani di allora per poi servire il mercato interno: Spagna, Grecia e, naturalmente, Tunisia. Ovvero: l’olio che andiamo a importare oggi è fratello germano di quello che produciamo qui, e sul mercato (anche al supermercato) li troviamo da sempre mescolati. Inutile dire che i maggiori produttori italiani, che oggi gridano allo scandalo, hanno da secoli importanti investimenti tunisini che fanno fruttare in tutti i modi. Paradossalmente, la decisione UE garantisce agli italiani una maggior qualità del prodotto: perché lo scambio vuole da una parte una maggior quantità di importazione del prodotto estero, a fronte però di maggiori garanzie di tracciabilità. Che non sia questo, in fondo, che dà noia ai produttori italiani che si stracciano oggi le vesti? Eh sì; perché se è vero che l’Italia è il secondo (dopo la Spagna) produttore nel mondo di olio d’oliva, è anche vero che è il primo consumatore. E questo, a fronte del ridotto territorio italiano coltivabile, ha sempre comportato, fin dall’antichità come sopra ricordato, un crescente ricorso all’importazione dall’estero: in particolare, appunto da Spagna, Grecia, Marocco e, ohibò! Tunisia, che da sola introduceva in Europa sin dal 1995 ben 56.700 tonnellate senza dazi. Giova ricordare anche che le 35.000 tonnellate aggiuntive saranno ugualmente ripartite su tutta la domanda europea, e che l’importazione non esente da dazi era già enormemente cresciuta negli scorsi anni. Anni in cui la produzione interna italiana aveva visto un calo di quasi il 40%, cui i produttori e distributori avevano fatto fronte con una massiccia operazione di mescolamento del nostro olio con quello importato, per non dire della sansa; e ricordiamo anche come questo prodotto fosse scarsissimamente tracciato, garantito, pubblicizzato e dichiarato, con la conseguenza che quello che avete messo in tavola negli ultimi dieci anni, recante l’etichetta (e il prezzo) conforme all’extravergine dichiarato italiano era nella stragrande maggioranza dei casi un blended di cose spesso misteriose, di provenienza indicibile e di qualità molto variabile, spesso assolutamente infima. La salute degli italiani non ne ha, per quanto ne sappiamo ad oggi, risentito granché; il portafoglio nemmeno (a meno che non si voglia rivolgersi agli artisti della bottiglia di olio da 30 Euro al litro, presso i quali anche spesso non è detto che non si possa trovare la frode, anzi!): quello dei grandi produttori, e non facciamo nomi, certamente no, visto il maggior margine ricavato dalla vendita di un prodotto acquistato molto a buon mercato e rivenduto a prezzo di prodotto di qualità. Tutte cose che il consumatore, prima di schierarsi pugnale tra i denti contro i malvagi produttori tunisini (in diversi casi italianissimi) farebbe bene a considerare.