Questioni di export culturale

illustrazioni-satira-leader-capi-di-stato-mondo-gunduz-agayev-castroCiascuno esporta, se è bravo, e se glie lo consentono, quello che ha da esportare. Finita l’epoca dei grandi colonialismi, quelli che sotto la bandiera del paternalismo imperialista “gli portiamo la civiltà e la croce e la democrazia, ma che vogliono pure dire la loro?”, siamo velocemente scivolati nell’imperialismo economico delle Repubbliche delle Banane, poi in quello del Grande Racconto (America contro URSS, Libertà contro Programmazione?) e poi, visto che la tenuta di tutte queste cose buone si andava sfilacciando (storica la buccia di banana di Francis Fukuyama, al proposito, comunque), siamo tutti passati a esportare direttamente le idee. Perché se esporti la democrazia sulla punta delle baionette, poi capita che trovi anche gente che ti faccia le sue rimostranze al proposito.
Se invece racconti come nel tuo Paese scorrano fiumi di latte e miele (bleah!), tutti sono ricchi e il minimo che ti possa capitare alla sera, dopo aver vinto un concorso a premi ed essere diventato milionario, è di sbatterti una maggiorata iperattiva, allora la gente delle altre contrade tenderà a prendere entusiasticamente in considerazione il tuo sistema di idee, sperando che tutto ciò possa capitare anche a loro, dopo.
E sulla base di queste idee, ormai radicate, a quel punto puoi piazzargli qualsiasi cosa: sciampi, biscotti, lavasciughe, filmetti, ciuingam, governi, qualsiasi cosa. Questo giochino va avanti da sempre. E i primi ad averlo messo in campo siamo stati proprio noi, noi abbiamo inventato l’idea che esportare la voglia di essere Romani potesse aprire la strada alle legioni, al commercio, all’olio, al vino, al grano, alle tasse, allo scarico in terra altrui delle robe di cui ci dovevamo disfare. I nostri progenitori hanno capito che la circolazione delle idee, che già da un pezzo andava avanti, peraltro, un misto ellenico mediorientale cino indiano che aveva pian piano contagiato tutto il Mediterraneo, poteva essere regolarizzato e diventare un ben format esportabile, un po’ come quando la Endemol si compra i prodotti decotti della televisione americana dai ’50 ai ’70.
Anzi, senza “un po’”: esattamente così. Tant’è vero che il passaggio entropico del palinsesto televisivo americano a quello italiano è un ottimo esempio di quello che stiamo dicendo oggi. Gli americani forti, belli, alti e biondi che su di noi riversavano cascate di chewing gum (gomme americane, appunto) e cioccolata dai carri armati poi si sono trasformati nelle pubblicità del tizio che dall’alto del suo cavallo vendeva carne in scatola Montana. Italianissima, nata nel ’41 a Milano come Azienda Carni Società Anonima Lissonese, per poi divenire Montana nel ’53 e approdare al teleschermo, grazie a Carosello, col suo Gringo nel 1966: la parabola è fatta, la Plasmon, nata nel 1902 a Milano sulla base di ricerche sull’alimentazione iperproteica svolte in Germania ed Inghilterra, sempre dall’arena di Carosello bombarda le masse con quello che è già il refrain del desco statunitense: bambini, mangiate più carne, mangiate più carne, messo anche in musichetta. Altro che dieta mediterranea, peraltro proposta da un altro americano, Ancel Keys, già inventore delle Razioni K: forse mangiare di meno rende più sani, ma mangiare di più rende più felici.
O l’immediato parente di essere felici: essere satolli. Così, dal dopoguerra in avanti due sono le culture alimentari che si fronteggiano: l’una salutista, poi approdata al vegetarianesimo e sfociata infine in eccessi parareligiosi tipo il veganesimo e peggio ancora; l’altra dell’ingrasso sereno, della tavola imbandita come surrogato, e segnale, dell’abbondanza, coi suoi carrelli pieni zeppi di precotti e surgelati, coi suoi preparati miracolosi e le sue promesse di forza e crescita. Niente di tutto questo era italiano, è appena il caso di dirlo; da noi già sapevamo cosa volesse dire riunirsi a tavola, e si mangiava quel che c’era, e quel che si riusciva: i ricchi di più, i poveri di meno, e stop. E’ che le idee, come il calore, come l’acqua, scorrono naturalmente da un posto dove ce n’è in abbondanza, dove l’ambiente è saturo, fino a riempire i vuoti degli ambienti dove sono scarse, o assenti. E così, in mancanza di una cultura forte, di un sistema di idee veramente solido, condiviso, sentito, assieme ai frigoriferi e alle playstation e ai SUV adottiamo via via tutto quello che di queste culture sovrabbondanti risulta disponibile sul mercato.
Chi sentiva, in Italia, la mancanza di biscotti da inzuppare nel latte? Non ce n’era forse già un discreto numero? Eppure: oggi la campagna pubblicitaria del lancio, anche da noi, degli Oreo non lascia adito a dubbi, l’Italia è un mercato ancora vergine, da mettere in riga. Scontiamo trenta, quaranta, cinquant’anni di lag rispetto alla cultura di massa nordamericana, e perciò quando arrivano da noi i prodotti, le idee, sono belli che collaudati; a volte, sono addirittura stati già scartati. Gli italiani consumano burro e strutto? Per carità: fanno male, si avanzi la margarina. Si scopre che fa male solo quando si spinge l’olio di palma; lo adottiamo, sussiegosi, quando Unilever decide di boicottarlo per spingere l’olio di soia, che controlla al 100%, e ci troviamo nella strana situazione di chi si trova a metà tra la riconversione alla palma e la demonizzazione di essa, con grande isteria dei pubblicitari tutti.
Ma i cibi sono solo la parte più visibile e concreta di questa fagocitazione culturale, che in parte è giustificata dall’adozione, per via di una evoluzione sociale simile e parallela, degli stessi costumi, mentre per il resto è semplicemente pianificata. La colonizzazione, la terra formazione, è in atto in migliaia di aspetti: i generi musicali, l’uso del linguaggio, le pretese dei genitori riguardo ai figli e viceversa, le attività ludiche e di intrattenimento, la spoliazione delle campagne e contemporaneamente dei centri urbani, la massificazione della letteratura. La solitudine, l’esaltazione del successo a tutti i costi, l’analisi statistica, la droga della psicologia popolare, i rotocalchi, l’informazione fatta di editoriali venduti e comprati. Ultimo, ma non minore, arrivo: i modi della partecipazione alla vita politica, sempre più esaltata, manichea, spettacolarizzata, con campagne elettorali all’ammazzamento dei rivali costi quel che costi, con le sparate televisive e le vigliaccate dei comizi e dei media, con le sue incomprensibili primarie e i suoi programmi aleatori e campati per aria, da completare, in caso di vittoria, volta per volta, come accade per le puntate delle soap: da una settimana all’altra, in base all’umore, all’audience registrata tramite i baracchini degli utenti controllati, via quel protagonista, riscrivere la sceneggiatura, organizzare un amorazzo tra quei due e quegli altri due si lasciano, e vedere sulla gente l’effetto che fa.
Ironico, quantomeno, che Fidel Castro, da noi preso a esempio e idolo della lotta a questo sistema imperialistico, non solo non lo fosse – la permeabilità tra Stati Uniti e Cuba è ormai da decenni elevatissima, nel bene e nel male, e certamente massima per quanto riguarda mode e prodotti di largo consumo, specie per chi se lo può permettere (ma tutti, tutti possono permettersi la Coca Cola, anche i figli dei vietcong) sia morto proprio in quel Black Friday in cui tanti affezionati al Barbudo stavano innocentemente sputtanando consistenti fette degli stipendi, ancor prima di mettere le mani sulle agognate tredicesime natalizie, nell’orgia degli acquisti Amazon, alla faccia della Revolucion, del comunismo, della lotta all’imperialismo, sfogandosi negli aperitivi di inizio weekend, pregustando maratone binge di telefilm Netflix con un occhio a Facebook e l’altro alla busta dell’asporto di MacDonald’s o del Kentucky Fried Chicken, perché avevamo proprio bisogno di un altro cibo bisunto sulle nostre tavole e sui nostri divani.
La differenza è che in America, che sia tutto un gioco, lo sanno benissimo; siamo noi che ci preoccupiamo dell’esito delle elezioni in casa loro, che come dimostra Trump in realtà 9 punti su 10 della campagna elettorale possono essere disattesi a seggi ancora caldi. La parabola cubana dimostra chiaramente come opporsi all’imperialismo culturale statunitense non sia impossibile ma sia, in ultima analisi, non solo doloroso, ma pure inutile, che tanto. La scelta è quella dell’alternativa del diavolo: appiattirsi e diventare una terra di conquista, o fare i duri e puri e finire piallati, come Haiti, come le Repubbliche delle Banane. Oppure, scendere a concreti compromessi, opponendo una cultura che già c’è e che sia in grado di trasformare, filtrare, modificare i virus provenienti dall’esterno, adattandoli alla propria bisogna. Cosa che, guardandosi attorno, non sembra che stia avvenendo. Ma c’è poco da fare i superiori, da fare quelli che stanno in finestra a godersi lo spettacolo. Il rischio è di fare la fine che dicono fu quella del filosofo Crisippo: assistette allo spettacolo del proprio asino che, dopo una ubriacatura, risultava sommamente ridicolo, proseguendo con l’abbuffarsi di fichi. Uno spettacolo così ridicolo che il filosofo pare morisse dal gran ridere, per cui può darsi che ridere poco sia anche salutare e che l’abbuffata degli altri sia pericolosa per tutti.
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