Quella notte folle e nostalgica dei clandestini del tango

di David Tammaro

Grosseto – Si ritrovarono, si ritrovarono alla spicciolata, di notte, di nascosto come carbonari. La luna era alta e piena e la pista, sotto l’ombra del grande pino, piena dei suoi aghi, di qualche pigna, di esoscheletri di cicale.

Arrivavano senza una convocazione.

Nessuno aveva osato dare neppure il minimo segnale sulla chat, un colpo di sms, uno squillo. Era stato il fresco profumo di quella sera d’estate a consegnare ovunque fragranze, sogni e l’inatteso invito.

Vietato! Vietato ballare in ogni forma, in ogni luogo oramai da un anno.

E allora fu solo il ricordo che fece il resto.

L’anno precedente erano tutti lì, ma proprio tutti. Una sera in onore al grande Gavito: inventore di passi ancor più compatti in un abbraccio stretto. Inabissati entro il fluido musicale, tra quegli abbracci.

Ora era la dea Nostalgia a convocarli, a portarli ignari, increduli e inconsapevoli, ma complici, solidali per il comune sentire, su quella pista.

La forte astinenza, la forzata assenza, il loro forte desiderio in contrasto con l’Io inibente, li conduceva.

Ed eccoli, cittadini dello stesso popolo, orfano di nazione ma carico di comunione, increduli incrociavano sorrisi, sguardi, occhiate, felici di esserci ma strisciati nei cuori dal terrore per il nemico comune che infido poteva castigarli.

Una debolezza che si poteva pagare cara.

Eppure rischiare come da ragazzi, nell’ingenua incoscienza di bere per la troppa sete senza sapere se l’acqua aveva veleno, amare per il bruciore della passione senza sapere se la malattia poteva piegarli per una vita, o un figlio non cercato poteva arrivare a cambiare i loro destini.

Senza pensare al pericolo che i vigili o i carabinieri li potessero beccare.

Eccoli ora clandestini. Clandestini di ogni epoca, profughi e illegali di ogni luogo, assaporavano ancor di più lo spirito milonguero, lo spirito che fu di coloro, che molto prima, ballarono. Ballarono occultamente ogni volta per ragioni diverse: l’esser relegati nelle periferie, l’essere malvisti perché immorali, l’essere banditi dai regimi militari.

Eccolo ancora una volta il cemento che li legava, l’animo sovversivo e rivoluzionario del tango, questo contatto, questa promiscuità di corpi e di persone ai tempi dell’allontanamento, dell’inquisizione anti assembramento, della mascherina, del vaccino, della profilassi forzata.

Qualcuno iniziò a diffondere la musica senza bisogno di un cenno.

Eccoli che iniziavano, iniziati al mistero della camminata nell’abbraccio. Le scarpe compagne di ieri – oggi abbandonate da troppe sere – strisciavano il suolo con il fervore e la passione carica del troppo divieto.

Il primo fu un  brano suonato dall’orchestra di D’Arienzo: Remembranza.

 

Cómo son largas las semanas
cuando no estás cerca de mí
no sé qué fuerzas sobrehumanas
me dan valor lejos de ti.
Come si dilatano le settimane

quando tu non sei con me

non so che forza sovrumana

mi dà senso lontano da te.

Quale miglior proposta per evocare tutto lo spirito della mancata occasione di ballo che la pandemia costringeva in ognuno di loro, oramai da troppo tempo e tutti ballarono come non mai, senza ci fosse un domani.

Finisce la musica e gli occhi umidi di tutti si incrociavano increduli: finalmente la magia riprendeva, finalmente l’incontro, la seduzione, il conforto della nostalgia, la dolcezza umana contro il pericolo di contagio. Sensazioni dilanianti abitavano i cuori di tutti: perdersi nel piacere dell’altro, temere che quella dolzura (dolcezza) portasse malattia.

Ma …. ancora lui il Rey del Compás – che campeggiava con tutta la sua spinta ritmica, li compattò tutti nel secondo tango Cicatrices.  E le coppie per incanto incominciarono di nuovo a formarsi e a rondare nella pista.  Sembrava che quell’ignoto musicalizador stesse giocando con i loro sentimenti. Quelle note, quei compás (ritmi) ora avevano un sapore più profondo e i passi, gli abbracci, erano i nuovi attori del teatro di sempre. Cicatrici appunto erano quelle che ognuno stava lenendo nell’abbraccio del ballo, accarezzando il dolore di non poter più ballare.

Il divieto di ballare era stato togliergli l’aria, la possibilità di vivere e non una sera, ma mesi, mesi interi, quasi un anno oramai in cui nessun compromesso, nessuna debolezza era permessa.

Ma oggi il dio tango li aveva chiamati e loro, sacerdoti di questo mistico ed esoterico culto laico, rispondevano all’unisono, come un popolo, come una comunità delle note, della socialità e dello spirito.

Come impedire all’acqua di scorrere.

Madrugada fu il terzo brano in cui oramai si ritrovavano quelli che erano. Felici di essere loro, non altri, non cambiati in questo, solidali ad ognuno, figli di tutti.

Gli arpeggi del piano, i pianti del bandoneon, i ritmi sincopati del contrabasso e la voce del Cantor che li legava insieme nel movimento, “nella ricerca di un abbraccio nel pianto”, come dice il testo – la letra della canción.

La musica finisce e ora gli sguardi sembrano più lunghi, meno furtivi e più distesi gli inviti, e i sorrisi per il quarto brano Humillación – oramai gli animi erano carichi, erano dentro lo spirito del ballo.

Il fraseggio del bandoneón e il controcanto dei violini rompevano l’oscurità del silenzio come una striscia luminosa da seguire in un delirio di passione e d’incoscienza dell’amore.

La voce di Hector Mauré:

odio este amor que me ensegnó a suplicar,  odio este amor che mi ridusse a mendicare il tuo calore “.

E ora lontana una sirena si percepiva aumentare la sua intensità, aumentava e si avvicinava come il suono di un violino che iniziava però a dominare gli altri. Ora la sirena era diventata feroce, tanto che la musica si interrompe, le coppie si fermano e si dividono nei singoli, e centrifughe corse striscianti disperdono il corpo, il popolo di ballo nell’ oscura vegetazione bordeggiante.

La sirena continua la sua fuga, ma oramai ogni incanto è rotto e unica si leva una voce soffocata nel silenzio già calato nel suo ritorno:

“Sarebbe bello poter ……..”

 

Remembranzas

 

Cicatrices

 

La madrugada

 

Humillacion

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