Qualche giorno fa, un nostro concittadino ha organizzato un viaggio speciale in treno per far assistere ai propri fans, l’anteprima a Roma del film in 3D (urca!) del suo recente concerto.
A tanti, evidentemente, il rock piace così.
Pomposo, esagerato, organizzato, super-aggregante, patinatissimo e soprattutto irripetibile.
Si propongono sempre eventi, solo eventi, nulla che abbia lontanamente un’idea, come dire, un po’ selvaggia, un po’ passionale della faccenda.
Tutto studiato a tavolino al punto che l’idea stessa del rock appaia così lontana dalle origini da avvertire un personale e fortissimo senso di nausea. Star system e business in salsa nostrana.
Ma non a tutti piace così.
Qualche sera fa, in un localino ricavato a fianco di una stazione di servizio Agip chiamato “Freccia della Strega”, ho assistito ad una spettacolare e semplicissima rappresentazione del rock delle origini.
Un gruppo di amici quarantenni, innamorati pazzi degli Who e della beat generation degli anni ‘70, (The Substitutes), riconosciuti in Italia e anche all’estero come “validissima cover-band di Pete Townshend e soci”, ha deliziato i presenti con quasi due ore di concerto proponendo tutti i pezzi più famosi della storica band inglese.
Senza palco, con cameriera che transitava con succulenti panini da servire ai tavoli, impianto audio ai minimi termini, atmosfera davvero familiare, eravamo in 50.
Due ore di energia e di passione che mi hanno commosso e che mi hanno fatto rimbalzare alla mente i primissimi anni 80 (o gli ultimi anni ‘70), quando la musica, violenta e penetrante, rinasceva dai garage per spazzare le masturbazioni sonore degli anni 60/70 inglesi.
Eravamo in 50. Che dire?
Due ore di passione, ma anche 4 musicisti bravissimi che a costo zero regalavano ai presenti le origini di un rock storico e vibrante con l’unica mission di contaminare tutti con il ritmo trascinante della musica ribelle di quegli anni. Mi è sembrato, in quelle due ore, che fosse presente, in quella sala, il vero ed unico significato del rock e della vita stessa dei veri rockers.
Mi direte: ordinaria storia di una cover-band in un paese come l’Italia dove la musica viaggia a minimi termini tra pochi idoli strapagati e straviziati e tanti finti idoli che si adagiano in melodie e mode assolutamente impalpabili.
Vox di Nonantola, 28 settembre 2008, concerto dei Charlatans.
Storica band di Manchester, seguitissima in patria, 12 albums realizzati, in classifica da 20 anni con tanti singles (The only one I know, Love is the key, North country boy e tanti altri), 5 musicisti straordinari, anch’essi con la passione del rock nel sangue.
Eravamo in 80.
Eppure, in una sala desolata, semivuota, anzi, praticamente vuota, Tim Burgess e soci non si sono sottratti e risparmiati, deliziando i presenti con tutte le loro hit per quasi due ore di concerto.
Ordinaria storia italiana di una band inglese che si presenta (suo malgrado) senza supporto pubblicitario e che in patria (ero presente ad Edinburgo al loro tour nel 2006) non scende sotto le 2000 presenze, con non meno di 30 date nel tour.
Che si siano rifiutati di suonare? Che abbiano suonato senza voglia o affiatamento?
Ma non è tutto: gli organizzatori chiesero anche ad una band di Napoli (i Vipers) di fare da gruppo spalla garantendo solo il rimborso spese del viaggio in treno (in treno!), quindi senza strumenti. Sapete con cosa suonarono i 4 bravissimi partenopei? Con gli strumenti dei Charlatans.
Per chi non è pratico di musica, non è facile capire quanto ciò sia eccezionale: i musicisti sono molto gelosi dei loro strumenti, soprattutto nelle performances live.
Prestare una chitarra, una batteria o un basso a ragazzi che in quel frangente non si potevano permettere nemmeno un furgone per suonare con i loro amati, non è roba usuale. Credetemi.
Ecco la dimensione diversa del rock.
Suonare davanti a 100 persone, prestare gli strumenti, trasmettere emozioni reali: siamo proprio in un altro mondo.
Qui, in Italia, è l’eccezione.
In altri luoghi è la regola: lo si capisce dai treni.