L’omicidio di Luca Varani a Roma, tra i tanti aspetti efferati, contiene in sé i morbi del familismo amorale. Edward Banfield, un antropologo americano, svolse nel 1954-55, in un paesino della Basilicata, una ricerca sul comportamento sociale dei contadini e definì “familismo amorale” il loro atteggiamento volto ad accrescere il benessere sociale e materiale del proprio nucleo, ma privo di etica pubblica e comunitaria. Questo familismo è “amorale” in quanto cerca il bene “privato” e si disinteressa del bene “comune” nelle relazioni esterne alla famiglia di appartenenza. È un atteggiamento che nei confronti delle altre famiglie e della società esterna manifesta una competitività priva di norme etiche in quanto persegue come unica regola il vantaggio dei propri figli che devono risultare “vincenti” ed eccellere nella vita. Il titolo originario era ‘Le basi morali di una società arretrata’. Ma coglieva un aspetto che contraddistingue, per molti aspetti, i nuclei familiari della postmodernità. E che in relazione a questa storia trova espressione nei padri di Marco Prato e di Manuel Foffo che in tv o sui social trovano immediatamente parole per dire un’indicibile difesa di sé e dei figli.
Più ci si chiude all’interno del proprio guscio familiare e meno si è capaci di responsabilità condivisa. Lo spazio pubblico esterno diventa così sempre più deserto e accresce un senso di insicurezza educativa nuova, che non era presente quando esisteva la possibilità di condivisione all’interno di una famiglia più vasta, o delle relazioni di vicinato e di quartiere.
La famiglia odierna, povera di scambi relazionali con le altre famiglie, nell’isolamento sociale e abitativo, è autoreferenziata, e finisce per valutare la propria buona riuscita educativa sulla base della riuscita dei figli, misurandosi su capacità e abilità dei figli che sembrano “tranquillizzanti”. Cercano sicurezza nei “successi” dei figli, nel vederli “primeggiare”. Un forte senso di competizione ed elevate aspettative spingono ad offrire una sovrabbondanza di beni materiali cui non sempre corrispondono analoghe cure affettive autentiche. Si pretende da loro e per loro il massimo. Il padre di Foffo, in tv, ha affermato che “suo figlio ha un quoziente intellettivo superiore alla media”. Ecco. Fermiamoci un momento su questa frase.
Continuo a pensarci. Morti nell’anima. E perciò anche nella mente. A che è servito quell’alto quoziente di intelligenza razionale? A compiere un delitto raccapricciante dove la ricerca di emozioni forti,
amplificate da coca e alcol, si accompagna alla povertà di sentimenti davanti all’omicidio di un ragazzo e all’assenza di pietà.
Educare ai sentimenti rappresenta oggi una priorità per le nuove generazioni: spetta a loro, come ai genitori, questa responsabilità che è pedagogica e politica ed è necessaria per non disorientarsi nel cammino della vita. Perchè i sentimenti sono necessari proprio per compiere scelte logiche: “la capacità di esprimere e di sentire delle emozioni è indispensabile per attuare dei comportamenti razionali”. Questo, scrive il neuroscienziato Damasio, è stato “l’errore di Cartesio”: avere sottratto valore alla vita emotiva per conferirlo unicamente all’esperienza razionale. Separando mente e sentimenti, coscienza e emozioni. Invece è proprio tornando a unirli che si diventa umani