Quel “cencio” è un capolavoro: il Palio di Siena nell’arte e nella letteratura

Da almeno 50 anni questa sfida è accolta da artisti di fama internazionale

Il sogno, la speranza, il dramma. Non c’è rito di popolo più intriso di sentimenti primordiali come il Palio di Siena, che si avvicina quasi di soppiatto, a inizio estate verso il suo primo appuntamento consolidato nei secoli, quello del 2 luglio. Nella Piazza del Campo rivestita di tufo, dieci cavalli e dieci fantini, sono nello stesso tempo gli interpreti della sfida eterna tra le Contrade e la simbolica espressione della storia della città. Ottanta secondi che valgono l’impegno quotidiano e la passione di tutta l’esistenza dei Contradaioli e che suscitano lo stupore, l’innamoramento, talvolta anche l’indignazione, dei non senesi. Ma è comunque tutto vero. È un’esplosione di sentimenti, memorie, orgoglio, che nulla ha a che fare con la stantìa ripetitività della rievocazione. È genuina verità che trascende i confini della contemporaneità, ed è vita vissuta dei senesi. Il Palio, per dirla con Eugenio Montale, è “il giorno dei viventi”.

Ed è forse proprio nel dialogo tra il Palio, l’arte e la letteratura, che si possono cogliere le tracce dei messaggi comunicativi insiti nella testarda festa dei senesi. Che si apre, ogni volta, proprio nel nome dell’arte, con la presentazione del drappellone che verrà conquistato dalla Contrada vincitrice. È un drappo di seta talmente verticale da essere di per sé stesso una sfida per gli artisti, oltretutto ingabbiati nei limiti di una committenza che ha fissato da secoli i riferimenti obbligati: il drappellone del 2 luglio deve essere dedicato alla Madonna di Provenzano, quello del 16 agosto alla Madonna Assunta.

Da almeno 50 anni questa sfida è accolta da artisti di fama internazionale che, oltretutto, accettano di svelare la propria opera non nel contesto di paludati vernissage a misura di critico d’arte spesso amico, ma nel Cortile del Podestà, all’ombra della Torre del Mangia, di fronte a centinaia di Contradaioli pronti a fischiare o applaudire nell’immediatezza della rivelazione, senza mediazioni. L’artista rischia di essere umiliato come uno scolaro somaro, oppure esaltato in un attimo, se riesce a esprimere la verità del sogno dei senesi.

A Giovanni Gasparro, l’ultimo a sottoporsi al giudizio estremo, pittore quarantenne rincorso dall’attribuzione di “caravaggismo” di Vittorio Sgarbi, interprete contemporaneo del sacro e della spiritualità religiosa, è andata bene. Molto bene. I senesi hanno applaudito a lungo il suo drappellone in cui appare adagiata una Madonna rivestita di un lungo manto celestiale, sorretta in cielo da un turbinìo di angioletti. Uno regge un ferro di cavallo, simbolico richiamo alla carriera imminente. Poi, il drappo della Madonna si trasforma in drappellone, dal quale sbuca un paggio vestito di bianco e nero – i colori della città – che scruta oltre, nella fissità di uno sguardo che resta interrogativo, senza nessuna delle risposte che ci affliggono da uomini e da Contradaioli: “Una Madonna di Provenzano che regge un Drappellone. Dietro questo atteggiamento – ha detto Axel Hemery, direttore della Pinacoteca Nazionale di Siena, che ha presentato l’opera – c’è il dono del Palio alla Contrada e alla città e il rinnovo di un rapporto atavico di venerazione e di affetto”. E il sindaco di Siena, Nicoletta Fabio, ha aggiunto: “La potenza evocativa di questa Vergine che avvolge la città con il suo manto si completa con quella più terrena del paggio. Un po’ come avviene con la nostra Festa caratterizzata da valori aulici eterni, ma anche da attimi quotidiani. In questo si caratterizza la nostra forza, nel volersi superare sempre rispettando la propria identità”.

L’identità, il messaggio, il segno, il significato. In fondo, con il drappellone che a Siena chiamano “cencio”, la città tenta di affidare all’arte la comunicazione di sé stessa in mezzo a una contemporaneità difficile, in cui la tradizione rischia di deragliare rispetto a nuovi obblighi anche di legge, di una festa che dovrebbe rimanere invece metagiuridica per sempre. Oggi, l’interprete di questo messaggio è stato Giovanni Gasparro, così come accaduto nel 1971, per esempio con Renato Guttuso, in un tripudio di volti felici e di colorate bandiere. O con Leonardo Cremonini, in un attimo sospeso tra il volo dei vessilli e cavalieri appena intuiti, pronti a lanciare i propri cavalli. E ancora, con l’enigmatica Madonna di Valerio Adami nel 1981 o con quella giunonica di Fernando Botero nel 2002. E poi, nel 2019, con la Vergine-eroina di Milo Manara, che ha saputo fondere la spiritualità religiosa obbligata dalla committenza, con i canoni della propria arte che non disdegna la trasgressione. Così i musei delle Contrade, dove riposano i drappelloni custoditi con cura, sono diventati tante pinacoteche che raccontano la passione irrinunciabili della città.

E parlano a chi voglia ascoltare. Come hanno fatto nei secoli, scrittori e poeti rapiti dalla verità che sta dietro e dentro la carriera sul tufo. Ognuno cogliendo un attimo, una sensazione, un fotogramma. Scrive Vittorio Alfieri nel 1783: “Eccoli al teso canape schierati; / con altri assai, ma in lor presenza alteri, / né badan pure a que’ minor corsieri, / sol l’un l’altro emulando in vista irati”.

E Tommaso Landolfi nel 1939, con poche “pennellate” esprime concetti molto amati dai senesi: il Palio non è una farsa, non è una coreografia cui si può assistere in perfetta indifferenza, è molto, molto di più. […] Il Palio è Siena tutta colla sua civiltà continua, coll’immanenza delle sue alte passioni”.

Un letterato e storico come Piero Bargellini, sindaco di Firenze, città storicamente nemica di Siena, ha invece narrato al meglio il mistero della continuità delle Contrade. Ha scritto: “Nel pieno meriggio cinquecentesco, Siena non era ancora matura per cadere spontaneamente nelle mani del dominatore della Toscana. Il suo picciòlo, costituito dalle gloriose costituzioni repubblicane, si manteneva ancora verde, bene attaccato al tronco d’una saldissima tradizione comunale. Bisognò tagliarlo con la spada; strapparlo con la violenza. Da ciò l’offesa, la ferita, lo strazio della disperata resistenza, il dolore della fatale resa. Da quell’offesa, da quella ferita, da quello strazio e da quel dolore, nacquero le Contrade; nacquero come protesta contro la prepotenza, come lenimento alla ferita, come consolazione al dolore, come riaffermazione d’indipendenza e anche come speranza di rinascita. […] Ecco perché il Palio non fu e non è un ‘gioco’ simile ad altri o protratti nei secoli o riesumati in tempi recenti. Il Palio significò la sopravvivenza d’un ideale e di un ordine, conculcato, ma non domato; soppresso, ma non estinto”.

Mario Luzi nella nota che apre il libro La festa difficile di Luigi Oliveto, sembra voler condividere una riflessione: “Il mistero del Palio che induce pensieri ed emozioni talora contrastanti in chi non è senese, ma ai senesi rapisce e sgomenta all’unisono il cuore con la sua liturgia sublime e terribile

E Guido Piovene si sofferma su quello che è, infondo, il segreto del Palio, cioè la resistenza al tempo della Contrada, la sua impermeabilità alle mutazioni di ogni tipo, la capacità di rimanere riferimento di vita per i senesi di ogni generazione, porto sicuro che accetta il ritorno di chi sia andato via e rifugio quotidiano di chi resti nascosto dentro le mura della città. Scrive Piovene: “L’attaccamento alla Contrada non ha nulla a che fare con le idee, col partito politico, con gli interessi. Dipende in modo esclusivo dal luogo di nascita, dall’atavicità, da tutto quello insomma che è prenatale; non è pensiero, ma passione contratta con il semplice venire al mondo. L’uomo di Siena sente più profondo di tutto, di fronte alla propria Contrada, quello che fu chiamato «il demone di appartenenza».

È per via di questo demone che al tramonto del giorno del Palio, i senesi avvertiranno tutta l’inesorabile pesantezza di quel momento in cui, come scrisse Eugenio Montale, dalla torre cade un suono di bronzo”. Poi toccherà ai cavalli: “I loro zoccoli – scrive Erri De Luca – battono il ritmo del cuore degli uomini quando è in tumulto. Il galoppo degli zoccoli è il tamburo del sangue”.

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