Il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi è intervenuto alle Celebrazioni del 58° anniversario dei Martiri del 7 Luglio 1960: Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli.
Dopo la visita ai sepolcri dei cinque giovani al Cimitero di San Claudio e la deposizione di una corona al monumento che li ricorda e di una rosa rossa su ciascuna alle cinque pietre d’inciampo collocate nei punti di piazza Martiri del 7 Luglio e della Vittoria in cui caddero i ragazzi dalle magliette a strisce, ai Giardini pubblici si sono svolti gli interventi istituzionali e il discorso dell’onorevole Aldo Tortorella.
Di seguito l’intervento del sindaco Luca Vecchi:
“Se un qualsiasi cittadino ci chiedesse perché siamo qui oggi, perché siamo qui ogni anno, risponderemmo: perché esserci è qualcosa che supera ogni rischio di retorica celebrazione. Ognuno di noi potrebbe legittimamente portare una propria ragione personale, sentimentale o più in generale politica.
Credo che la consapevolezza del significato di fatti talvolta anche tragici della storia di una civiltà democratica rappresenti, anche a distanza di tempo, non un semplice atto di ricordo, ma un atto di responsabilità, di coscienza della storia, di consapevolezza della trama storica di un Paese, da cui non può certo prescindere qualsiasi traiettoria futura.
Noi sappiamo che per comprendere i fatti di Reggio Emilia non possiamo prescindere dal contesto politico di allora: il governo Tambroni, la Democrazia cristiana al governo con il Movimento sociale. E’ in quel contesto che l’Msi decise provocatoriamente di celebrare il suo congresso a Genova, la popolazione reagì e Tambroni d’accordo con il prefetto di Genova decise di revocare l’autorizzazione al congresso. Ma come ha scritto lo storico Paul Ginsborg, Tambroni fece un grave errore: invece di cogliere dai fatti di Genova le ragioni di una svolta, autorizzò la polizia a fare fuoco contro dimostranti antifascisti e antigovernativi “là dove fosse stato necessario”.
La vicenda drammatica del 7 luglio ci consegna, io credo, due grandi consapevolezze. Da una parte la perdita di cinque giovani uccisi da uno Stato che, come ricordo ogni anno, quel giorno sparò a se stesso, perché sparò contro il popolo.
Dall’altro, l’amara consapevolezza di come talvolta, in determinati frangenti storici, la democrazia sembri quasi aver tragicamente bisogno di sacrificare vittime innocenti per riprendere la propria giusta via. È capitato con capi di Stato, magistrati, esponenti di forze di polizia, è capitato a Reggio Emilia con i ragazzi delle magliette a strisce.
Difficile comprendere il 7 luglio se non si comprende il nesso tra il conflitto politico, quello sociale come sale della democrazia, ingrediente fondamentale che ha talvolta bisogno di manifestarsi per trovare la via della propria soluzione, e dall’altro di come, quando viene meno il dialogo, l’ascolto, la piena legittimazione dell’altro, questo possa portare il conflitto sviluppatosi nel perimetro democratico a degenerare negli esiti più tragici.
Se oggi possiamo vivere la libertà e la democrazia, lo dobbiamo anche a quei ragazzi. Lo dico senza alcuna volontà polemica: se domani, giustamente, la destra della città può liberamente trovarsi a ricordare Almirante lo deve anche al fatto che l’Italia, per divenire un Paese più democratico, libero, più rispettoso dei diritti delle persone e della loro dignità, è passata dal 7 Luglio a Reggio Emilia. Lo dovrebbero riconoscere 58 anni dopo, dovrebbero riconoscerlo, sarebbe un bel gesto perché non è con le provocazioni che si fanno passi avanti.
Le democrazie contemporanee vivono una fase di grande fragilità. Governi instabili, talvolta disomogenei e scarsamente duraturi.
Quando la distanza tra cittadini e istituzioni si divarica, si indebolisce la democrazia.
In questo senso torna d’attualità il pensiero di un grande presidente della Repubblica a 40 anni dalla sua elezione, che avvenne pochi mesi dopo la più buia pagina della storia della Repubblica: l’assassino di Aldo Moro.
Quel presidente è Sandro Pertini, partigiano antifascista, eletto a presidente della Repubblica italiana meno di due mesi dopo l’omicidio di Moro. Fra i tanti meriti di Sandro Pertini vi sono la sua interpretazione ferma e popolare del ruolo della più alta carica dello Stato, che egli ha riavvicinato al popolo con sincerità, onesta, lealtà e immunità da ogni deriva populista e autoritaria.
Pertini ebbe parole di grande rispetto e consapevolezza per il valore del sacrificio: “Dietro ogni articolo della Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamo difenderla, costi quel che costi”.
Oggi, mentre le spinte alla chiusura sono fortissime, dobbiamo aprirci ed essere lungimiranti, immaginare quanto di negativo può colpirci e quanto di positivo possiamo creare.
Il germe della chiusura, la sindrome della barriera, si percepisce con pesantezza nella politica, nella cultura, nell’appartenenza a circoli sociali, economici, che diventano esclusivisti, gelosi di un benessere che a qualcuno appare illusoriamente eterno, inviolabile e giusto.
Dobbiamo liberarci – la democrazia esige una lotta di Liberazione rinnovata ogni giorno – dalla passività dello ‘stato di fatto’ perché a noi fa comodo e perché ci viene presentato come legittimo.
Raccogliamo le istanze, la vivacità, la speranza e la sete di diritti delle giovani generazioni e di quelle più anziane, che non sono ‘scarti’ ma persone, che ci hanno preceduto nel cammino democratico e ci hanno lasciato in dono la Repubblica e la libertà.
E non dimentichiamo che le libertà – siano esse costituzionali, politiche, economiche, sociali – vanno difese e affermate, non soffocate, non affossate. Pena l’estinzione delle conquiste dei Martiri del 7 Luglio, dei Partigiani della Resistenza, delle generazioni che ci hanno preceduto.
La vicenda del 7 luglio 1960 è stata senza dubbio un crocevia importante della storia del nostro Paese.
Ma al fianco della sua portata nazionale, che a 58 anni di distanza non ha ancora avuto una parola chiara e definitiva di giustizia, al fianco di questo c’è un significato strettamente locale.
Un significato locale in cui il 7 luglio segue altri significativi momenti, nei quali il protagonismo dei reggiani contribuisce ad elevare il profilo di civiltà politica della nostra città.
Il filo che lega i moti risorgimentali anche alle vicende reggiane, con l’antifascismo prima e la Resistenza poi, la Liberazione che prepara il contributo di Reggio Emilia alla nuova Costruzione.
I grandi movimenti popolari, del lavoro e delle donne, che non è retorico ricordare, spinsero avanti la cultura dei diritti e dei servizi alla persona della nostra città.
È lungo quel filo ed è in quella scia che si colloca anche il 7 Luglio come passaggio storicamente fondamentale della nostra storia.
Oggi siamo qui a ricordare cinque figli di questa città. La città di oggi ma pure quella di domani, da loro non può e non potrà prescindere, con il valore del loro impegno e del loro sacrificio dovrà scrivere il proprio futuro”.