Si sa che lo storico si diverte a girovagare tra gli archivi a caccia di documenti che illuminino le vicende di grandi personaggi del passato. Un’avventura che può diventare emozione allo stato puro se, come è capitato a me, mentre esplori i fondi dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma alla ricerca di qualcosa di nuovo su Malaparte, scopri che il regime fascista aveva mandato al confino anche tuo nonno.
Ed ecco allora che, come per magia, storia e memoria si incontrano e ti tornano in mente i ricordi d’infanzia quando la mamma ti raccontava di suo babbo che, per difendere le sue idee, aveva abbandonato moglie e quattro figlie a spaccarsi la schiena in un piccolo podere di montagna. Tutto era accaduto a Fiumalbo, sull’Appennino modenese, un paesetto di un paio di migliaia di abitanti, dove viveva un irriducibile comunista, appunto mio nonno materno Geminiano che il fascismo non lo voleva proprio accettare.
Nato nel 1873, non era mai andato a scuola, forse sapeva a malapena leggere, non conosceva certo Marx e non leggeva “L’Avanti”. E allora come aveva fatto a diventare comunista, anzi ad essere il primo e per molti anni l’unico comunista di Fiumalbo? La prima risposta si trova nella scheda biografica conservata nel Casellario politico centrale di Roma, dove si legge: “Essendo vissuto per molti anni all’estero, è imbevuto di teorie sovversive ed ha saputo inculcare nei compagni operai sentimento di ribellione, di sopruso e disprezzo verso le istituzioni. In ogni occasione mette in evidenza con soddisfazione la libertà, che secondo lui si godeva quando predominavano i partiti sovversivi”.
La seconda risposta attinge alle memorie familiari perché mia madre mi raccontava sempre che suo babbo era andato in America a lavorare nelle miniere di carbone della Pennsylvania. Quando? Prima del fascismo, quasi certamente negli anni 1915-1917. Chi lo aveva convertito? Qualche emigrante comunista, forse addirittura una ragazza. Mi piace credere che sia stato così perché, quando Geminiano era tornato a casa e gli era nata la quarta figlia, aveva preteso di mettergli un nome strano, che non c’è tra le nostre sante.
Lui intendeva chiamarla “Anny”, ma non gliel’avevano accettato e allora l’impiegato dell’anagrafe l’aveva scritto come si pronunciava, cioè “Eni”. Nonostante facesse propaganda antifascista, Geminiano era riuscito a farla franca fino al 18 ottobre 1928, quando aveva sfregiato uno dei tanti simboli fascisti del paese. “In ogni occasione ha dimostrato il suo odio e disprezzo per il fascismo”, si legge ancora nella sua scheda, e quando aveva avuto “l’incarico di murare su di una griglia del torrente Pistone l’emblema del fascio littorio, ci sputò sopra in segno di disprezzo”.
Deferito al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, era stato prosciolto in istruttoria. Ma siccome la sua presenza a Fiumalbo costituiva “un pericolo per la sicurezza pubblica”, era stato “proposto alla Commissione Provinciale di Modena per l’assegnazione al confino di polizia” che l’aveva spedito a Ponza per un anno. Nel novembre ’30 aveva subito l’amputazione del braccio sinistro per un incidente sul lavoro. Ma, nonostante la menomazione e l’età avanzata – aveva ormai cinquant’otto anni –, la Prefettura di Modena lo aveva incluso “nell’elenco delle persone che sono da ritenersi pericolose in caso di turbamento dell’ordine pubblico perché capace di prendere parte ad azioni delittuose collettive”.
Geminiano non era un eroe, aveva un braccio solo ed era diventato cieco, non c’è da meravigliarsi se alla fine aveva chinato la testa. Mia madre mi raccontava che le sue donne lo scongiuravano di lasciare perdere il comunismo e di pensare alla famiglia. C’erano riuscite, perché i carabinieri segnalavano che, in occasione del plebiscito del marzo ‘34, aveva chiesto “ostentatamente la scheda elettorale favorevole al governo, rifiutando l’altra”. Per questa ragione il Prefetto di Modena aveva inoltrato a Roma la richiesta della sua “radiazione dal novero dei sovversivi”.
Ho pochi ricordi di mio nonno, ma uno mi è rimasto impresso in modo particolare: avevo cominciato le elementari, sapevo leggere a malapena ma lui voleva a tutti i costi che gli leggessi “L’Unità”. Era contento perché qui da noi a Prato, in Vainella dov’era venuto a stare qualche anno prima di morire, erano allora quasi tutti comunisti!
Walter Bernardi, già professore ordinario di Filosofia e Storia della scienza all’Università di Siena, Presidente dell’Associazione culturale “Curzio Malaparte pratese nel mondo”