Firenze – La memoria corre alle immagini del film di Roland Joffé del 1984: Killing Fields, i campi della morte, titolo liberamente tradotto per il pubblico italiano nel più poetico, ma meno assertivo, “Urla del Silenzio”. Piccoli uomini in uniforme nera che entrano a Phom Penh mentre la popolazione guarda attonita, incerta e impaurita. Era l’aprile del 1975 e sembrava la vigilia di una pacificazione e ricostruzione dopo anni di battaglie e bombardamenti furibondi. Invece era l’inizio di uno dei più efferati massacri della seconda metà del Novecento: nei campi di sterminio degli Khmer Rossi di Pol Pot morirono fra 1,7 e 2,5 milioni di persone fino al gennaio del 1979, quando il Vietnam intervenne per interrompere la follia assassina.
Uomini in nero, certo più alti di statura ma non meno feroci, sono i miliziani delll’Isis, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, che vuole costruire un nuovo califfato sunnita in un’area che dalla Siria arriva al Kurdistan e alla Mesopotamia. Li abbiamo conosciuti attraverso i video delle esecuzioni di poveretti che nulla avevano a che vedere con la loro guerra, se non la nazionalità occidentale, simbolo di inimicizia totale e odio mortale. Partiti dalla Siria lacerata dalla guerra civile, dove hanno combattuto prima contro il governo di Assad e poi anche contro gli altri ribelli più moderati, i guerriglieri Jihadisti dell’Isis hanno occupato vaste aree mesopotamiche fino ad arrivare a poche decine di chilometri da Baghdad, capitale ideale per la storia e la tradizione dell’autoproclamatosi califfo Abu Bakr al-Baghdadi. La loro è una “guerra totale”, come dimostra il massacro di soldati sciiti a Tikrit, la città natale di Saddam Hussein. Rispetto ai miliziani del Sud Est Asiatico, quelli mediorientali mostrano analoga ferocia sanguinaria, anche se le circostanze belliche ne limitano gli effetti quantitativi, e la stessa incrollabile ideologia integralista foriera delle grandi tragedie che in passato hanno periodicamente colpito l’umanità.
Ma la cosa sulla quale dovremmo riflettere è che questi due gruppi di uomini in nero della nostra storia recente sono stati e continuano a essere il prodotto di anni e anni di violenza, di morti, di distruzioni. Vicina al Vietnam la Cambogia subì per tre anni ai suoi confini orientali 3.875 missioni di aerei americani da bombardamento sganciando più di 108.000 ordigni. Mentre dalla guerra lanciata da Saddam contro l’Iran (1980 – 1988), alla prima guerra del Golfo (1991), alla guerra in Afghanistan (2001 e ancora in corso), alla seconda guerra del Golfo (2003 – 2011), sono più di trent’anni di sangue, morte e distruzione in quell’area con il ricorrente riapparire di forze estremiste islamiche jihadiste che si auto-alimentano proprio grazie all’incapacità degli occidentali e, in particolare, degli Usa di trovare una soluzione diversa da quella dell’uso della forza. Cecità e incapacità ovviamente favorita dalla presenza delle risorse petrolifere in quelle regioni.
Quando arrivano gli uomini in nero, ciò significa che l’umanità ha toccato il fondo della violenza ed è arrivata l’ora di fare delle scelte di pace. Dopo c’è solo il baratro.