I gusti sono gusti, ma nelle ultime ore sembra palpabile tra gli italiani una forte simpatia a favore dell’Olanda, in questa ultima fase del mondiale. Il Brasile ha già cinque titoli, la Germania potrebbe raggiungerci a quattro e l’Argentina, diciamolo, non l’abbiamo mai sopportata troppo. I tulipani vestiti di arancione, invece, sanno farci divertire e non offrono controindicazioni. Anzi, si rendono simpatici per la sfiga pazzesca che ha caratterizzato la loro storia ai mondiali di calcio. Senza troppe lungaggini tecnico-tattiche, buttiamo lì solo un dato: tre finali disputate e tre sconfitte.
Nel 1974 e nel 1978 gli olandesi del “calcio totale” – una squadra ancora oggi ricordata tra le migliori della storia – ebbero la sfortuna di giocare contro i padroni di casa. Nel primo caso, passarono in vantaggio dopo un minuto senza far nemmeno toccare il pallone alla Germania (che poi rimontò 2-1) e nel secondo persero 3-1 contro l’Argentina (sì, ma prima dei supplementari Rensenbrink prese un palo che ancora grida vendetta). Negli ultimi mondiali, quelli del 2010, si arresero al gol di Iniesta che portò per la prima volta la coppa in Spagna.
Olanda-Argentina, che si giocherà domani, ha tanti precedenti ma, come detto, è quello del 1978 il più significativo. Per quello che sì, avvenne in campo, ma soprattutto per il contesto nel quale l’Argentina della giunta militare ospitò il campionato del mondo. Giusto per fare una premessa del clima che si respirava a quei tempi, è sufficiente ricordare che due grandi giocatori dell’epoca, non presero parte alla kermesse calcistica in segno di dissidio verso ciò che stava avvenendo nel paese sudamericano. Parliamo di Johan Crujiff, talento olandese tra i più forti giocatori di tutti i tempi e di Paul Breitner, granitico terzino della Germania Ovest, noto anche per le sue posizioni maoiste.
In Argentina una dittatura aveva preso il potere con un golpe militare due anni prima. Nulla di nuovo da quelle parti, i continui cambi di regime erano sempre all’orizzonte, in una terra che pareva allergica alla democrazia. Il mondiale di calcio poteva costituire un momento di riscatto. Solo che la Fifa non aveva fatto i conti con le continue oscillazioni a pendolo di quella nazione, passata nel ’76 nelle mani di una giunta militare presieduta dal generale Videla. L’esercito scopre l’importanza del calcio quale arma di distrazione di massa e creazione del consenso – nonostante la continua violazione dei diritti umani e le migliaia di desaparecidos – spendendo per l’organizzazione dell’evento ben 520 milioni di dollari.
L’obiettivo di Videla era duplice: la vittoria della squadra di casa e la dimostrazione al mondo intero che l’Argentina era uno stato pacificato nel quale la vita scorreva placidamente. Organizzare alla perfezione una competizione mondiale sarebbe stato un biglietto da visita perfetto per il regime, che faceva della repressione un’arma chirurgica: la violenza non era mai esibita, ma silenziosa. Anche spietata e crudele, tanto che uno dei campi di concentramento – quello dell’Esma – si trova a poca distanza dallo stadio Monumental del River Plate. Tutti questi drammatici elementi portarono a pensare che, a oggi, quello del 1978 fu il mondiale più pesantemente condizionato dai fattori esterni. Non fu una farsa, ma quasi. Andatelo a chiedere ai brasiliani, che ancora oggi ricordano la “marmelada peruviana”. Noi diremmo “biscotto”, ma il senso è quello. Prima di accedere alla finale, le squadre rimaste erano divise in due gruppi da quattro: in quello dell’Argentina c’erano anche Brasile, Perù e Polonia. Il calendario dice Argentina-Perù e Brasile-Polonia, con i verdeoro davanti in classifica. A quei tempi non sussisteva l’obbligo della contemporaneità, e gli argentini andarono in campo consci che per andare in finale avrebbero dovuto battere il Perù con quattro reti di scarto. Finì 6-0…e si narra che quella vittoria costò al governo argentino 35mila tonnellate di grano gratis e un contributo di 50 milioni di dollari ai generali peruviani.
Videla riuscì dunque nel suo intento, anche se Rensenbrink, per questione di pochissimi centimetri, rischiò di mandare all’aria tutti i suoi piani. E non ebbe grande soddisfazione dall’allenatore – il grande Cesar Luis Menotti, detto El Flaco, uomo con note convinzioni di sinistra – e dai giocatori che, con la coppa in mano, restarono al suo fianco solo per le foto di rito. Poi scapparono nel tunnel dalla vergogna.