Ve la ricordate quella bellissima fantascienza degli anni cinquanta, sessanta, in cui i protagonisti nel futuro si aggiravano in mondi puliti, sterili, bianco su bianco, minimalisti come un poggiapiedi Ikea? Quelli in cui ci si spostava tramite marciapiedi semovibili, si mangiavano pillole liofilizzate ed erano tutti belli, alti, pallidi, c’era la pace, non c’erano più fame, razzismo, criminalità e acne? Ecco; non è andata così. E allora, ve la ricordate quella bellissima fantascienza degli anni settanta, ottanta, novanta in cui i protagonisti nel futuro di aggiravano in mondi caotici, luridi, pericolosi, ingarbugliati come un afterhour in sala mensa a San Quintino? Quelli in cui si viveva ai margini tutta la vita, cloni replicanti transessuali ti accoltellavano per rubarti le cornee, trafficavi in microchip sottocutanei illegali e ti facevi di droghe sintetiche da combattimento? Ecco; di nuovo, non è andata così. Alla fine, il futuro è molto più simile al passato di quanto non ci saremmo mai immaginati; praticamente uguale, con più automobili, più telefonini, più intronati tecnologici e meno diritti civili, ma a tutto questo poi alla fine ci si fa il callo. Così, anche se leggiamo sempre con grande interesse le esternazioni dei guru visionari che ci raccontano – a volte terrorizzati, a volte entusiasti – di come sarà il futuro, oggi preferiamo non sbracciarci più di tanto.
Prendiamo per esempio il bellissimo e lungo articolo di Staglianò apparso recentissimamente sul Venerdì di Repubblica in cui riporta le profezie e le idee del mirabile Jaron Lanier: genio visionario indiscusso, uno di quelli che hanno plasmato, a furia di idee, la realtà tecnologica (e quindi sociale) odierna immaginando possibilità che andassero oltre quello che potevi stringere con mano. La realtà virtuale, insomma: uno dei regali di quei pochi pensatori (Lanier decisamente in testa) al nostro nuovo e già usurato millennio, con tutti le sue allora (im) prevedibili ricadute politiche, economiche, lavorative, affettive. Ci si è baloccati per molto tempo con idee di supersoldati robot che volessero conquistare il mondo e con racconti di prostitute digitali e sesso immaginato tralasciando il fatto che quella digitale poteva essere la maggiore delocalizzazione lavorativa mai pensata: altro che gli stabilimenti della Fiat in Polonia, qui intere classi lavoratrici si sono trasferite dagli sgabuzzini, dalle redazioni, dalle fabbriche direttamente nel bacino dell’etere. Oggi se vuoi un modello di scocca non ti metti a costruire il blocco di legno, a rivestirlo di vetroresina, a farlo girare nella galleria del vento: ti affidi a un ragazzetto che nel giro di tre giorni ti serve dieci, dodici diversi modelli CAD già testati con un software. Zap, almeno cinque lavoratori fottuti, a casa, inutili. Peccato: era così bello perdere le dita sotto le seghe a nastro e intossicarsi coi solventi, i computer ci rubano il lavoro peggio degli immigrati negri cinesi (non molti, ad onor del vero). E così per molte professioni.
Perché pagare un giornalista, una segretaria, un disegnatore, un prete quando con un clic puoi sottomettere finanziariamente un perdigiorno in Indonesia e farti recapitare il lavoro già fatto, gratis o per un tozzo di pane? O di tofu, che nel pane ci sono i carboidrati? Zap, almeno cinquanta milioni di lavoratori fottuti, a casa, inutili. Certo, la critica di Lanier non è né stupida né irreale. E’ solo un pochetto saccente, specie venendo da uno di quelli che prima spergiuravano che il futuro sarebbe stato felicissimo. E oggi campano spergiurando che sarà difficile. I guru pentiti fanno sempre un po’ questo effetto: tendiamo a non fidarci ciecamente quando cominciano a fare i guru, ma nella direzione contraria. Peccato, perchè la loro capacità di proiezione è straordinaria, e vale sempre la pena di ascoltarli, di leggerli, non fosse per altro per allargare la nostra percezione del possibile e la nostra visuale su dove siamo ora, e sul come ci siamo arrivati. In ogni caso, non è detto che la loro visione sia quella corretta: è una di quelle possibili. Vale comunque la pena di osservare che, pur essendo dei guru, si sono sbagliati almeno al 50%; ossia, non molto meno di quello che avrebbe potuto fare chiunque, ma su scala più ampia, più grandiosa. Ci vuole una immaginazione più ricca per pensare al futuro, e una maggior freddezza. Perderemo il lavoro in tanti, è probabile: non è sempre stato così? Chi si ricorda più dei cappellai, degli ombrellai?
Eppure un tempo erano imprese floride. Migliaia di lavori che ieri asfissiavano, gasavano, corrodevano, massacravano in vario modo chi li eseguiva oggi sono svolti da macchine: eppure a parte alcuni brevi momenti di assestamento questo non ha portato miseria e fame, anzi. Nel mondo siamo sempre di più e ci curiamo meglio, mangiamo meglio e di più, siamo nel complesso tutti più ricchi, anche i poveri, e non parliamo poi della classe media che Lanier vede sparire. Quando puoi scegliere tra un corso di formazione o un cellulare per 500 Euro e compri il cellulare che fra poco dovrai buttare è segno che sei veramente ricco. O scemo, è una possibilità. O anche tutt’e due, finiamola con queste dicotomie non necessarie. Usiamo una immaginazione differente da quella usata finora, ancorata a terra. Domani la moneta potrebbe non avere alcun senso, e potresti essere pagato in ore-scambio o in buoni-cibo da usare al dopolavoro ferroviario come all’Osteria Francescana; scrivi tre righe su di un blog?
Non ti pago un Euro, ma puoi usufruire delle mie stanze comunque sfitte per una settimana. Progetti un sistema di irrigazione a goccia? Il tuo conto in banca resta invariato, ma hai diritto a servirti di qualsiasi bene produca la tal catena transnazionale per 4 anni, dai trasporti all’energia, a tua scelta. La ricchezza monetaria si concentra tutta nelle mani di quattro gatti, mentre tutto il resto del mondo non ha più lavoro? E chi comprerà allora i beni che i quattro gatti vendono? Non sarà più facile nazionalizzare i beni e ricorrere al baratto? Una moneta che nessuno possiede o può possedere non è moneta. E’ carta straccia, idea inutile. Il problema non è mai stata la ricchezza, o la produzione, ma la fabbricazione e la redistribuzione dei beni. Un futuro che debba essere immaginato deve prevedere necessariamente anche l’invenzione di nuove idee, non solo lo sfascio di quelle vecchie. E questo semplice concetto al giorno d’oggi, forse perché poco monetizzabile, sembra particolarmente ostico: si fa prima a fare cassa profetizzando disgrazie.