Senza nulla togliere alla musica che ha sempre avuto e avrà sempre un valore a prescindere, ci si chiede se possa bastare il concertone organizzato a Roma per la festa del primo maggio, dai sindacati confederali, a far dimenticare la crescente piaga della disoccupazione giovanile e le politiche messe in campo negli ultimi anni a fronte della crisi di lavoro.
Se non ci fossero stati gli artisti e i musicisti sul palco a rasserenare le menti di un platea sterminata di giovani, con quale coraggio i sindacalisti, molto più avvezzi ai salotti televisivi che all’incontro dei lavoratori nelle piazze, potevano azzardare sermoni sul significato di una festa che mai come ora è la celebrazione di un rito? Sì, perché ieri si è celebrata la festa del lavoro che non c’è. Si dice a causa della crisi, della globalizzazione, perché portato altrove, perché non si sono create alternative, perché le riforme- che riempiono le bocche dei nostri politici in ogni occasione- non si sono fatte e per mille altri motivi. Tanto c’è tempo, i giovani sono giovani quindi hanno tutta la vita davanti e possono aspettare. Avere pazienza, sembra essere l’unica alternativa all’esodo verso altri mondi, quando non ci sia la possibilità di creare qualcosa che funzioni e che dia reddito in casa propria. Impresa non semplice viste le implicazioni burocratiche e il carico fiscale da sostenere per portare avanti un’attività. E quando anche un giovane- che abbia spirito di adattamento- il lavoro lo trova, che cosa si deve aspettare? Guardandomi intorno vedo tanti giovani, anche laureati a pieni voti, che si adattano in mansioni per le quali sono sottopagati, se non proprio sfruttati. Mi riferisco a studi di professionisti che assumono a tariffe indecorose o grandi gruppi commerciali che esigono ore straordinarie da parte di giovani precari, senza che poi vengano retribuite, in quanto a diritti poi non se ne parla. Allora viene da chiedersi, dove siano i sindacati e quale sia il loro ruolo attuale, se non quello di redigere moduli contributivi per il pagamento delle imposte.
Quali proposte mettono in campo per far sì che il lavoro venga riportato nel nostro paese non si sa. Infastidisce vedere i grandi marchi che hanno fatto nel corso degli anni campagne pubblicitarie in nome dell’etica, esportare lavoro in Bangladesh senza verificare i requisiti minimi in materia di tutela del lavoratore. Viviamo in un paese fatto di contraddizioni, ma non può sfuggire che un’azienda come Benetton, con una grande famiglia di imprenditori alle spalle, che nel corso degli anni attraverso le campagne di Toscani ci ha proposto pubblicità a sfondo etico e cosmopolita, sia poi tra le aziende che non garantiscono un prodotto “pulito” . Proprio il gruppo Benetton lo scorso anno ci ha propinato uno spot, “Unemployee of the year” disoccupato dell’anno, che esprimeva partecipazione alla situazione che colpisce il mondo giovanile. I manifesti riportavano l’immagine di giovani vestiti da manager, con lo sguardo serio, più rassegnato che di sfida, nel reclamare un posto nella società. È questa contraddizione che colpisce un giovane disoccupato, oltre ai meccanismi che sottendono un sistema del lavoro profondamente in crisi da un punto di vista di valori. Quali giustificazioni si porteranno alle famiglie dei poveri lavoratori di Dacca vittime del crollo di un edificio fatiscente ma che occupava ogni giorno centinaia di operai del tessile? Settore che per il nostro paese è sempre stato e rimane un caposaldo del made in Italy, eppure anche imprenditori “eticamente sensibili” preferiscono esportare in paesi dove si lavora sottocosto, senza un minimo di tutela.
Esistono responsabilità precise che dovranno essere individuate, ma la complicità dei grandi gruppi occidentali nel chiudere un occhio e forse anche due, in questa vicenda è evidente. Tutto risulta essere ancora più inaccettabile, quando in casa nostra, tante piccole realtà imprenditoriali che vivono il rapporto lavoratore e datore di lavoro come in una famiglia, giustamente si sottopongono con enormi costi a procedure meticolosissime per essere in sintonia con la legge in materia di sicurezza sul lavoro. I colossi invece, quelli che… interviene la politica, sono indenni. Siamo sicuri che i nostri giovani migliori vogliano veramente far parte di una società così priva di valori, dove la corsa al successo, il potere e la ricchezza sembrano essere diventate le uniche prerogative? “Cambiare” non sia solo lo slogan di un evento che coinvolge in questi giorni la città ma l’impegno di una vita.
Daniela Anna Simonazzi