Viareggio – Raccontare quanto avvenuto a Viareggio lo scorso sabato 26 ottobre, richiede una riflessione profonda perché va bel oltre il solo gesto in sé. In uno spazio sottratto al degrado grazie al progetto realizzato dalla locale Associazione Araba Fenice, è infatti stata posata la “prima pietra” per un nuovo edificio, una Pagoda ideata dalle persone che il Parco lo utilizzano, e grazie alle quali questo spazio è disponibile per l’intera città, e per tutti coloro che vorranno conoscerlo: magari lasciando – perché no! – nuove proposte di condivisione, che sappiano portare beneficio alla comunità.
Ma, andando oltre l’uso – peraltro importante – che della nuova struttura verrà fatto, la posa di questa prima pietra ricorda quanto scritto dall’apostolo Tommaso nel suo Vangelo «Indicami la pietra respinta dagli edificatori! Essa è la pietra d’angolo», che riassume perfettamente il senso del lavoro svolto da Associazione Araba Fenice in tanti anni: dare dignità agli ultimi.
È una pietra, quella posata sabato, posta a dare continuità e reciproco sostegno fra due muri affinché dal loro agire comune possa ergersi possente, sicura, difficilmente scalfibile una costruzione, simbolica unione ideale fra un passato vissuto da emarginati e quello di un futuro vissuto invece serenamente, insieme agli altri.
Emma Viviani, la sociologa che ha dato vita alla Associazione Araba Fenice e al vasto progetto legato al Parco omonimo, durante la cerimonia di posa lo ha ricordato con soddisfatta chiarezza: «Oggi restituiamo alla città uno spazio sottratto al degrado grazie alla collaborazione di chiunque, spontaneamente, ha reso disponibile il proprio tempo. Quanto accade oggi vuol dire che abbiamo vinto: abbiamo vinto nei confronti di un linguaggio che bisogna iniziare a conoscere per cambiarlo, perché a essere considerate “ultimi” sono persone piene di risorse e potenzialità. Ci dobbiamo credere e smettere di valutarle come persone di minor valore.»
La storia del Parco nasce dagli ultimi, quelli che nel 2005 iniziarono a lavorare all’area verde allora ricettacolo di baby gang e microcriminalità: i primi a comprendere la potenzialità – e l’occasione che il progetto loro offriva – furono i tossicodipendenti seguiti da un Ser.T, che ripulirono lo spazio dalle siringhe divenendo parte attiva e propositiva di una visione molto contrastata, in primis da molti cittadini che non la capivano. A oggi è chiaro a tutti come la fragilità possa tramutarsi in forza, erano gli “ultimi” che per “primi” riposero fiducia nella realizzazione di quest’area tanto “diversa” perché protesa a una “diversa” modalità di costruire i rapporti umani. Per questo, Emma Viviani ha voluto rivolgere un ricordo di gratitudine e affetto proprio alle persone che «ci hanno accompagnato e oggi ci accompagnano dall’alto a fare questo bellissimo percorso», dando fiducia alla sua visione.
Una visione condivisa da Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, che nell’assolvere i propri compiti istituzionali segue con molta attenzione il lavoro di Emma Viviani e della sua squadra, apprezzandone l’eterogeneità dei componenti e – di conseguenza – la vivacità del dare risposte realmente utili alla comunità, dal momento che è la comunità stessa a indicare le necessità. Marcello Bertocchini, Presidente della Fondazione intervenuto alla cerimonia, ha avuto proprio il compito – che ha palesemente assolto con piacere – di dare ufficialmente il via ai lavori del cantiere per la Pagoda, smuovendo la zolla in cui collocare la pietra d’angolo, ponte naturale verso le attese nel futuro.
Abbiamo prima fatto riferimento alla simbologia, e altamente simbolica è la Pagoda stessa: per darne adeguata comprensione, abbiamo scelto di ricordare le parole che il Prof. Silvano D’Alto scrisse nella postfazione del primo libro in cui la sociologa ha raccontato la propria esperienza al Parco (Una tribù all’ombra delle foglie di coca – Per una nuova cultura del territorio, ETS Pisa, 2009): «Vidi che alcuni componenti del gruppo dell’Araba Fenice indossavano un cartellino con la scritta: ‘operatore cittadino’. Finalmente avevo trovato la possibilità che i costruttori dello spazio del Parco si sentissero, fin dalle prime avventure, ‘operatori cittadini’: perciò costruttori di un minuscolo pezzo di città. Dico di città, non di un recinto di utenti del Ser.T. Non avrei mai accettato di chiudermi in un processo che portava non al valore della città, ma a quello del ghetto. […] Ne venne fuori una idea eccellente che impegnò il gruppo in un lavoro di vera e propria progettazione, con dovizia di plastici in balsa e in legno. Un lavoro che meritava ammirazione: io stesso stupito per come i pensieri astratti del dialogo comune e il fare concreto si legassero magnificamente. Ciascuno metteva la propria competenza, il proprio estro, la propria genialità. […] In termini correnti tale spazio prese il nome di ‘pagoda’, perché – si disse – doveva andare al di là della ‘casa’ che appariva una chiusura rispetto al compito di aprirsi verso l’esterno: verso la natura e la cultura. Emma comprese pienamente questo senso dello spazio come esperienza essenziale al divenire del gruppo. Gli spazi: come specchio, forma e misura della propria volontà di esistere. Costruire lo spazio per costruire se stessi. Un pensiero che echeggiava la grande coscienza progettuale di Giovanni Michelucci: solo dalla marginalità poteva nascere l’dea della ‘nuova città’.»