Predicozzi Cara politica, ti diciamo come si fa (Prampolini gli fa un baffo)

Chiudiamo un anno segnato da molte apprensioni e difficoltà.
Certo, l’Emilia-Romagna e Reggio Emilia vanno meglio della media del paese, qui abbiamo una disoccupazione intorno al 4% e tuttavia il Pil si attesta a un irrilevante 0,3%.
Poco, troppo poco.
I segnali confermano il rallentamento dell’economia e un calo significativo della produzione industriale.
Pesa, soprattutto, il trend negativo dell’export, in particolare quello diretto verso una Germania che soffre il forte calo dell’automotive, penalizzato oltremodo dall’assurdo bando ai motori diesel.
I dodici mesi che abbiamo davanti saranno segnati da due elementi che destano preoccupazione: la frenata dell’economia e l’inadeguatezza dell’azione politica del Governo.
I testimoni che abbiamo invitato questa sera ci parleranno non solo di un’Italia che non funziona, quella del sofferto avanzamento della linea Torino-Lione o della crisi senza fine della grande Acciaieria di Taranto, ma anche di un Paese che nonostante tutto combatte e va avanti: quell’Italia del PIL di cui ci sentiamo orgogliosamente parte e di cui Dario Di Vico da tempo racconta le vicende.
Due mondi sempre più in difficoltà: il primo segnato dall’incapacità di dare risposte a problemi complessi, il secondo – il nostro – vittima di un Paese che pare incurante dell’industria, dello sviluppo e del lavoro.
I risultati prodotti sulla società italiana dalla crisi e dall’ormai manifesta debolezza politica, sono stati in questi giorni delineati dal Censis che ha parlato di società ansiosa e macerata dalla sfiducia.
Sono ben otto i milioni di italiani definiti “pessimisti assoluti”, ovvero cittadini convinti che la democrazia non si adatti più al nostro Paese.
Il 76% dei nostri connazionali non si fida dei partiti ritenuti ormai incapaci di dare risposte concrete ai bisogni della gente.
Non è dunque un caso se il 48,3% degli italiani pensa a un uomo forte, autoritario, in grado di risolvere da solo i problemi del Paese.
La politica insegue e alimenta questi stati d’animo promettendo un cambiamento che appare sempre più remoto.
Noi, che guardiamo al mondo dai nostri stabilimenti, sappiamo bene che il vero cambiamento si trova solo nell’innovazione, nella crescita, nell’occupazione e nella coesione sociale.
Il Governo lavora in direzione opposta.

La sugar tax e la plastic tax, comparse all’improvviso nella Legge di Bilancio, rappresentano solo la punta di un iceberg che minaccia di compromettere la competitività delle imprese di questi settori.
Inoltre, le misure previste dal Decreto fiscale collegato alla Legge di Bilancio, e in particolare l’articolo 39 del provvedimento intitolato “Modifiche della disciplina penale e della responsabilità amministrativa degli enti”, rischiano di mettere a repentaglio l’attività d’impresa, generano forte incertezza sotto il profilo giuridico e allontanano qualsiasi nuovo investimento nel Paese.
L’introduzione dell’ipotesi di confisca allargata, strumento pensato per combattere la criminalità organizzata, applicabile anche nel caso di un ordinario controllo fiscale, porterebbe, senza alcuna sentenza neppure di primo grado, al blocco dei conti correnti aziendali e dunque al blocco sine die della ordinaria attività d’impresa.
Sarebbe una sorta di condanna a morte!
Nei principali provvedimenti approvati dall’inizio della legislatura − dal decreto dignità alle norme sulle crisi d’impresa e alle ultime leggi finanziarie, fino al decreto fiscale in discussione in questi giorni − emerge un approccio che alimenta le divisioni tra componenti della società civile, come se tra cittadini e imprese vi fosse una separazione ideologica nei comportamenti e nei valori.
Questo clima di criminalizzazione delle imprese non è utile al contrasto dell’evasione e rischia solo di avere effetti negativi sulle attività economiche e sul lavoro.
Ma non basta, se si collega questa ipotesi legislativa con l’entrata in vigore al 1° gennaio 2020 delle nuove norme già approvate sulla prescrizione dei processi, emerge il rischio che le attività produttive restino sospese per periodi lunghissimi, a causa dei tempi della giustizia italiana, con danni irreparabili anche nei casi in cui venga successivamente accertata la non colpevolezza.
Non stupisce così che lo scorso 12 dicembre i presidenti delle Confindustrie del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia-Romagna abbiano espresso, congiuntamente, la preoccupazione degli imprenditori del Nord, a proposito del Decreto Legge fiscale in questione, dopo che la stessa Confindustria, nei giorni scorsi, aveva denunciato l’approccio iper repressivo della manovra governativa.
Confindustria ripete da tempo che vanno adottate misure anticicliche, come lo sblocco degli investimenti nelle infrastrutture del Paese: abbiamo circa 70 miliardi di risorse disponibili per cantieri superiori a cento milioni di euro, che vanno attivati immediatamente.
Ai profeti della decrescita felice si deve rispondere con investimenti in opere, capaci di prevenire crolli e/o inondazioni, per dare all’Italia e agli italiani un futuro più sicuro.
Nei giorni scorsi, a Roma, nel corso del primo Business Forum trilaterale delle Associazioni degli Industriali di Francia, Germania e Italia, il tema degli investimenti è stato ampiamente ripreso.
Un’iniziativa senza precedenti che ha proposto cinque azioni concrete tutte di rilievo strategico:
realizzare massicci investimenti per la crescita e la competitività dell’Europa;
finanziare in modo incisivo la green economy;
sostenere la leadership digitale europea;
sfruttare il potenziale del mercato unico e definire un’ambiziosa politica industriale europea;
promuovere scambi e investimenti internazionali aperti ed equi.

Ciò che distingue il “manifesto” di Bdi, Confindustria e Medef è una visione del futuro “forte”, basata su una strategia ambiziosa e di ampio respiro.
Il Programma ipotizza – solo per il green deal – un aumento degli investimenti aggregati da parte della UE per 250-300 miliardi di euro annui.
Tutto ciò senza considerare il valore degli investimenti privati che un tale volano attiverebbe.
Lo stesso meccanismo è previsto per gli altri quattro punti che prevedono anch’essi importanti investimenti di rilievo continentale.
Visione e richieste, quelle richiamate, che stridono con la situazione surreale vissuta dal nostro Paese.
Le banalizzazioni che purtroppo affliggono da anni la vita politica e il confronto pubblico italiani, ci hanno abituati a divisioni di schieramento fondate su pretesti, su posizioni ideologiche o sulla propaganda.
Da questo punto di vista l’ex Ilva di Taranto è lo specchio di un Paese in difficoltà, confuso e ansioso che da tempo ha smarrito la fiducia nelle proprie capacità e potenzialità.
Un Paese nel quale disfare ciò che è stato fatto ieri è diventato il modo per affermare la propria parte politica e raccogliere un immediato quanto effimero consenso.
Nel mese di giugno l’amico Cesareo – nel rivolgersi agli industriali metalmeccanici italiani riuniti nell’ex Ilva di Taranto – ha urlato al mondo che Taranto non è un “problema” ma una delle “frontiere” che il nostro Paese nel suo insieme deve riuscire a conquistare.
Una “Frontiera” nella quale le ragioni dell’economia, dell’industria e del lavoro devono necessariamente trovare una sintesi con le ragioni delle persone e della comunità, a partire dalla salute di tutti.
A Cesareo voglio dire una sola cosa: Taranto, le sue imprese, i suoi cittadini e il suo acciaio non sono soli, il loro impegno è anche il nostro impegno, la loro battaglia è anche la nostra.
Una battaglia che si chiama progresso sociale.
Una cosa diversa dal Pil, dalla crescita, dalla passiva difesa del lavoro e dell’ambiente.
Un progresso sul quale, come ci ha ricordato Papa Francesco, ciascuno è chiamato a impegnarsi.
Dice il Santo Padre:
“Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una migliore qualità della vita, non può considerarsi in alcun modo progresso”.
Un pensiero rivolto non solo alla società, ma anche agli imprenditori – come noi – che da tempo s’interrogano su nuovi modelli economici e su nuovi prodotti capaci di contribuire a uno sviluppo sostenibile.
I tempi sono cambiati.
La competitività di realtà come Torino, Reggio Emilia o Taranto dipende sempre più dalle esternalità.
Mi riferisco non solo alle infrastrutture ma anche alle scuole, all’università, alla ricerca, all’accessibilità, alla società civile, alla cultura, alla coesione sociale, alla qualità dell’Amministrazione, dei servizi e della vita.
Dunque, dobbiamo guardare alle città e ai territori come a sistemi complessi per la cui costruzione è indispensabile mettere al lavoro l’intera società, partendo dalle infrastrutture materiali e immateriali.
Il successo della Stazione Mediopadana ci racconta una storia diversa da quella proposta dai No TAV.

La nostra TAV è una grande esperienza di relazioni, di scambi, di ampliamento dello spazio accessibile e di nuove opportunità.
Voglio ricordare, in proposito, una dichiarazione fatta da Paolo Foietta poco più di un anno fa.
“Il giudizio preventivo del ministro sull’inutilità della linea ferroviaria Torino-Lione non ha nessun riscontro né con i numeri più aggiornati né con le analisi su cui lavoriamo da molti anni e che dovrebbero essere lette e discusse, non mistificate”.
Ci sentiamo mortificati dall’idea di vivere in un Paese che pare aver smarrito la ragione.
Una comunità nazionale nella quale l’inesperienza e l’arroganza di chi non ha bisogno di confrontarsi con altri, rappresentano ormai il massimo comun divisore.
Subiamo tragedie evitabili, ci perdiamo in scontri ideologici e in battaglie che, partendo da nobili quanto velleitarie intenzioni, finiscono per regalarci grandi città – come Roma – fuori controllo e invase dai rifiuti.
Tutto ciò mentre il mondo viaggia alla velocità della Quarta Rivoluzione Industriale.
Internet delle cose e con le cose è il nuovo paradigma che impatta su tutti i settori e che impone la ri-progettazione tanto dei modelli di business di ogni impresa, quanto delle stesse città e dei territori.
La diffusione della cultura digitale è diventata ormai uno dei fattori imprescindibili anche per lo sviluppo del sistema economico reggiano.
In tale prospettiva, è ormai indispensabile creare a Reggio Emilia un vero e proprio distretto digitale.
Un insieme sofisticato, costituito non solo da imprese digitali, ma anche da università, fabbriche modello, learning center, incubatori di start-up, luoghi di co-working e di trasferimento tecnologico.
Il corso di laurea in Marketing Digitale – inaugurato nei mesi scorsi – rappresenta sia la prima tempestiva risposta a una domanda del sistema produttivo, sia il primo passo verso la costituzione di un vero e proprio Campus universitario dedicato ai saperi digitali.
Un elemento di grande qualificazione della nostra manifattura avanzata, capace di concorrere tanto a caratterizzarne la rinnovata identità, quanto a moltiplicare l’attrattività delle imprese e del territorio.
Il mondo cambia e gli industriali reggiani con la loro Associazione hanno deciso di partecipare al cambiamento.
Nonostante il difficile contesto nazionale nel quale operiamo, negli ultimi dodici mesi abbiamo lavorato con molta passione per definire le linee dell’azione associativa in coerenza con il nuovo paradigma della quarta rivoluzione industriale.
Da questo impegno, che ha coinvolto decine e decine tra imprenditori, funzionari e specialisti, è scaturito il Libro Bianco, dal quale nei mesi scorsi ha preso forma il Piano Operativo triennale di Unindustria Reggio Emilia, la cui esecuzione partirà il prossimo gennaio.
All’attenzione verso le imprese e l’Associazione abbiamo affiancato anche l’impegno per l’elaborazione delle possibili linee di sviluppo locale.
Un insieme d’idee e proposte che nella primavera scorsa abbiamo condiviso prima con i candidati Sindaco e poi con l’intera comunità reggiana nel corso della nostra Assemblea Generale.
“Cinque città in una sola città” è il titolo che abbiamo scelto per questa nostra riflessione dedicata al futuro del Capoluogo e del suo territorio.
“Cinque città” come metafora per evidenziare cinque dimensioni, economiche e sociali, ciascuna delle quali concorre sinergicamente a definire la città di successo che siamo chiamati a sognare e a realizzare.
Abbiamo apprezzato, in tal senso, l’annuncio che il Sindaco Luca Vecchi ha fatto – nel recente incontro con le categorie economiche della città – in merito all’avvio, nel corso del 2020, di una grande iniziativa, pluriennale e partecipata, per la definizione di tutto quanto concorre al futuro sviluppo della nostra città e del suo territorio.
Rinnoviamo pubblicamente la nostra adesione a questo progetto di rilievo strategico che rappresenta un’assoluta novità per la nostra comunità.
Negli anni a venire saremo chiamati a dimostrare, a noi stessi e al mondo, di essere in grado di cambiare e che intendiamo farlo insieme.
Autorità, Signore e Signori, Colleghe e Colleghi,
gli imprenditori italiani sono una risorsa essenziale per la loro capacità di innovare, di produrre lavoro, ricchezza e di concorrere – attraverso le loro Associazioni – alla definizione del posizionamento strategico dei rispettivi territori.
Fare l’imprenditore significa non piegarsi all’asprezza dei tempi ma, al contrario, impegnarsi per contribuire a determinare nuove speranze.
Un modo di essere irrinunciabile per chi, come noi, è convinto che l’Italia abbia mezzi, risorse e intelligenze per risalire la china.
Un obiettivo di rinascita nazionale che non dipende solo da scelte amministrative e politiche, ma anche dall’impegno di tutti gli italiani.
Ci auguriamo che nel 2020 il senso di responsabilità prevalga su ogni interesse di parte, determinando, in tal modo, l’unità d’intenti e la concordia indispensabili al perseguimento del bene comune.
A tutti voi, ai vostri familiari e ai vostri collaboratori i migliori auguri per un sereno Natale e per un nuovo anno capace di trasformare la speranza in piccoli e grandi successi quotidiani.
Ne abbiamo tutti bisogno.

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