Firenze – Grande scalpore e titoli trionfali, ma sembra davvero che la sentenza europea del 26 novembre scorso circa il precariato nella scuola non assicuri affatto “l’infornata” di assunzioni che veniva data per certa. Di cosa si tratta? Il 26 novembre 2014 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha pronunciato sentenza definitiva sulla legittimità dei contratti a termine reiterati oltre i 36 mesi nella scuola pubblica del nostro Paese. Una sentenza che, secondo molti commentatori e operatori del settore, ha reso possibile l’immissione in ruolo di circa 150mila precari sul fronte scuola del nostro Paese. E tuttavia, qualcuno pone dubbi fondati che la sentenza, pur storica, possa condurre a questa soluzione per i precari. Fra coloro che pongono il dubbio fondato in punta di legge e giurisprudenza, l’avvocato del lavoro Andrea Danilo Conte, che spiega la vicenda secondo il punto di vista dei più “pessimisti” fra gli operatori del settore. Anche se, come spiega lo stesso Conte, “la sentenza della corte europea rappresenta senz’altro una svolta”.
Per brevità, possiamo sintetizzare che, in un percorso più che decennale, la Corte Europea ha riconosciuto che il sistema dei contratti a termine è stato utilizzate al di là dei “paletti” che la stessa Europa aveva fissato. Vale a dire, la pubblica amministrazione italiana (anche i privati, ma la questione è più semplice, come vedremo) ha “abusato”, uscendo fuori dal tracciato europeo, dello strumento del precariato. E dunque, deve pagare. Sì, ma la questione successiva è: come? Se viene riconosciuto “il danno” al lavoratore magari impiegato per anni in rinnovi di fattispecie precarie, è possibile chiederne anche l’assunzione tout court? E in ogni modo, come si quantifica il danno?
Per rispondere al primo quesito, conviene fare marcia indietro e cominciare là da dove nasce la ratio della sentenza del novembre scorso, che rientra nel più largo campo dei contratti a termine, non solo nella scuola. Bisogna tornare al 1999, quando l’Unione Europea emana una direttiva che si rivelerà fondamentale e che ha come scopo quello di vietare e perseguire l’abuso di utilizzo del contratto a tempo determinato. Per arrivare all’obiettivo, la direttiva 70/1999 mette dei paletti precisi, che gli stati membri dovranno adottare in toto o in parte ma che dovranno essere rispettati in tutta Europa. Ed ecco i limiti: il contratto a tempo determinato deve essere motivato dall’emergenza, stato che dev’essere presente per ogni contratto di questo tipo; ci dev’essere un tetto massimo di proroghe; deve sussistere la durata massima del contratto stesso. L’Italia prende atto della direttiva europea ed emana il decreto legislativo 368/2001, che però si ritiene possa venire applicato al solo contratto a di lavoro a tempo determinato nel settore privato.
Il motivo era semplice: per quanto riguardava il pubblico impiego valeva infatti una norma dello stesso anno, il 2001, che oltre agli stessi paletti, recava anche una regola ulteriore, vale a dire che non si sarebbe mai potuto, nel pubblico impiego, assumere trasformando un contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato. Una differenza molto importante, ancorata a una norma costituzionale, l’art. 97, che dispone che si accede a impiego pubblico solo per concorso. Tutto rimase in questo stato per circa un decennio.
La svolta avvenne sul finire del primo decennio, e partì da Grecia, Spagna, e dalla stessa Germania. Infatti in quei Paesi le corti cominciarono ad emettere sentenze che prevedevano, se il contratto impugnato dal lavoratore era a tempo determinato ma illegittimo in quanto si dimostrava che non ottemperava ai paletti messi dalla direttiva Ue del 1999, che scattassero delle sanzioni. Ed è a questo punto che la Corte Europea comincia a dare l’allarme: una normativa di uno stato membro (l’Italia) si pone infatti contro la direttiva della Corte Europea. Perché? Perché permette il perdurare dell’illegalità, dal momento che non è possibile rintracciare una sanzione “adeguata” all’illegittimità, tale a da dissuadere e far cessare il comportamento illegittimo. Il 23 novembre 2010 però viene approvata dall’Italia una legge che prevede la possibilità di impugnare il contratto a termine (per mancanza dei requisiti, fondamentalmente) entro 60 giorni dal termine previsto. Scoppia il caso: migliaia di ricorsi vengono intentati in tutta Italia. E così, partono le sentenze: qualora sia accertata l’illegittimità del contratto a termine impugnato, si ottiene il risarcimento del danno. Non il posto di lavoro, vale a dire l’assunzione o stabilizzazione che dir si voglia, perché, non scordiamoci, si sta parlando del settore pubblico e naturalmente osta sempre la famosa norma della Costituzione, per cui non si può accedere a impiego pubblico se non tramite concorso. Annotiamo che l’attuale governo ha spostato il limite per impugnare il contratto a 120 giorni dal termine.
In questo dibattito, la scuola è “protetta” da un’altra norma ancora, che permette il ricorso alle graduatorie (infinite e precarie) e che ne fa territorio ancora più speciale rispetto alla PA intesa in termini generali. La ratio, il servizio educativo non può essere interrotto , essendo un servizio pubblico primario. Tanto più che la riforma risalente al ventennio berlusconiano aveva visto introdurre una norma esplicita per la scuola in tal senso, che affermava che la normativa generale del pubblico impiego non poteva applicarsi alla scuola. L’opposizione giuridica e politica invece asseriva che quella norma non “è coerente con la Direttiva Europea” del 1999.
Ed eccoci alla sentenza europea del 26 novembre 2014, che riguarda proprio il punto. Si stabilisce infatti che, in mancanza di garanzie che il personale precario scolastico venga mai stabilizzato, questa norma è da considerarsi illegittima, salvo restando poi compito del giudice italiano quello di controllare di volta in volta se i paletti della Direttiva 70/1999 siano stati rispettati o meno. Ricapitolando: i contratti della scuola, precari, a tempo determinato, possono essere impugnati entro 120 giorni, e se sono dichiarati illegittimi (vale a dire, se non sussistono i requisiti giustificativi di cui la delibera europea) in Italia vengono sanzionati con il riconoscimento del danno. Quanto? Come si fa a provare il danno del precario? Le sentenze sul tema, dal momento che non esistono norme che riguardano la questione specifica, “si sono attaccate ai brandelli dell’art. 18 – spiega Conte – e hanno dato un risarcimento di 15 mensilità”. Ovvero, in mancanza di regole, si sono conformati alla norma più simile esistente nel corpus giuslavoristico italiano.
Ma la partita non è finita, avvisa l’avvocato. Infatti, ci sono state richieste di pronunciamento della Corte Costituzionale (da cui peraltro partì l’iniziativa di adire alla Corte Europea) circa la sanzione. Vale a dire, c’è in atto una richiesta a spingersi oltre al risarcimento del danno, e ad uniformare la sanzione del settore pubblico con quello del privato. Insomma, si mira ad ottenere la conferma a tempo indeterminato del posto di lavoro. Ma, avverte l’avvocato Conte, non c’è da attendersi molto: infatti, il principio dell’art. 97 della Costituzione è sempre là a sprangare la porta con il suo assunto fondamentale, vale a dire “al pubblico impiego si accede per concorso”. Anzi, il rischio è che si giunga a dover “provare” il danno subito dal lavoratore precario mantenuto per anni in stato di (illegittima) precarietà. Una sorta di “prova diabolica”, visto che sarebbe difficilissimo calcolare l’impatto sulla vita del lavoratore di questioni come il rifiuto di un mutuo, la rinuncia a una gravidanza, ecc. A soccorso viene però una precedente sentenza della Corte europea, intervenuta a gennaio 2014, che riguardava un caso occorso al Comune di Aosta, in cui la Corte di Giustizia della Ue valutò che la prova del danno “non potesse essere diabolica”. Ed ecco il perché: se la prova del danno fosse impossibile da dimostrare, l’illegittimità dell’atto resterebbe senza sanzione, contravvenendo così a un principio ribadito dalla stessa Corte Europea, che dice che l’atto illegittimo deve avere una sanzione. Insomma, la partita della stabilizzazione dei precari nel settore pubblico e in particolare nella scuola rimane ancora aperta. Per ora, conclude Conte, di sicuro c’è solo il riconoscimento del risarcimento del danno.