Seppur detestabile, è ormai abitudine consolidata stimolare incidentalmente l’opinione pubblica a emettere giudizi incontrovertibili, quasi che a ogni cittadino fosse direttamente attribuibile la conoscenza sia dei fatti, sia delle responsabilità giuridiche delle persone coinvolte. Il fenomeno ha un nome preciso: populismo penale. Il populismo penale corrode sia la giustizia nazionale sia quella internazionale. Prendiamo a esempio un dibattito molto in voga in questo periodo storico: l’attribuzione del reato di genocidio.
Un primo punto che sfugge ai più, è che il “crimine dei crimini” – la definizione è del Tribunale speciale del Ruanda – non può essere imputato a uno Stato: è una contraddizione giuridica, uno Stato al massimo viola un trattato. Sono soltanto le persone fisiche a rispondere del più grave dei crimini internazionali. Prima di accusare qualcuno del crimine internazionale di genocidio, è necessario inquadrare almeno a grandi linee questo reato, infame da tutti i punti di vista.
Il termine genocidio fu inventato dal giurista polacco Raphael Lemkin nel 1944 per descrivere i crimini commessi dai nazisti contro gli ebrei e dall’Impero Ottomano in Armenia. La definizione del giurista polacco non venne inclusa, però, negli Statuti del Tribunale di Norimberga e del Tribunale di Tokyo, che affrontarono le questioni relative allo sterminio degli ebrei e di altri gruppi etnici e religiosi sulla base degli accordi che portarono al Patto di Londra tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Questi tribunali fecero riferimento alla categoria generale dei crimini contro l’umanità.
Il crimine di genocidio tipico del diritto penale internazionale – sostanziale e processuale è stato tradotto in norme di diritto internazionale positivo dalla Convenzione ONU sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, entrata in vigore nel 1951 e ratificata dall’Italia l’anno successivo. Tuttavia, si è dovuto attendere l’istituzione del Tribunale speciale del Ruanda nel 1994 per renderlo processabile.
L’art. 1 della Convenzione afferma che “il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine in base al diritto internazionale”. Il reato consta, come ogni reato, di un elemento oggettivo e uno soggettivo.
L’art 2 della Convenzione, e le regole consuetudinarie collegate, definiscono le varie tipologie di condotta che possono essere qualificate come genocidio: sono cinque categorie e contengono i reati sottostanti che compongono il crimine di genocidio a livello generale. Essi costituiscono l’elemento oggettivo del reato: uccisione dei membri del gruppo; grave offesa all’integrità fisica o mentale dei membri del gruppo; assoggettamento preordinato del gruppo a condizioni di esistenza tali da condurre alla sua distruzione fisica totale o parziale; misure dirette a impedire le nascite entro il gruppo; trasferimento forzato di fanciulli dal gruppo a un altro gruppo. E fino a qui non si riscontra grande differenza, per esempio, tra genocidio e crimini contro l’umanità. I due gruppi di crimini internazionali potrebbero percepirsi sovrapponibili, ma sarebbe un grave errore perché i crimini contro l’umanità non possono ricomprendere fattispecie criminose che abbiano come scopo l’annientamento di un gruppo etnico, nazionale, razziale o religioso.
È nell’elemento soggettivo che le due categorie di crimini si differenziano, al punto che
nel caso del reato di genocidio l’elemento soggettivo è l’intenzione di distruggere in tutto o in parte i raggruppamenti elencati poc’anzi. Intenzione che costituisce un elemento mentale
aggravato, in base al quale si debba ritenere che l’attore del crimine non abbia agito solo con l’intenzione di portare a termine la condotta sottostante, ma di averlo fatto con l’intenzione di distruggere quel gruppo in quanto tale. È quello che viene generalmente definito dolo speciale, elemento soggettivo del reato che esclude le altre forme quali colpa o dolo eventuale.
La definizione di genocidio adottata dalla Convenzione è la seguente: gli atti commessi con
l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. La definizione sancita nella Convenzione è stata poi riprodotta in modo identico nell’art. 4 dello Statuto del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, nell’art. 2 dello Statuto del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, nell’art. 6 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale (CPI) e nell’art. 28 B dello Statuto della Corte africana di giustizia e dei diritti umani.
La procedura penale internazionale. Per quanto riguarda la giurisprudenza della CPI vale
su tutti il Caso del generale Radislav Krstić, comandante dei Drina Corps dell’esercito della
Republika Srpska, condannato a 35 anni per il massacro di Srebrenica. La Camera di prima istanza non accolse le argomentazioni della difesa del generale, tese a inquadrare i reati di Radislav Krstić come crimini di guerra (per esempio: eliminazione di tutti gli uomini della città di Srebrenica in qualità di potenziali nemici) e confermò l’ipotesi di genocidio. Ipotesi poi ribadita, seppur con qualche attenuante, dalla Camera di appello della Corte Penale Internazionale. I genocidi giuridicamente accertati sino a oggi sono quelli avvenuti in Bosnia-Herzegovina, Ruanda e Cambogia.
Concludo questa disamina sul crimine di genocidio ricordando che, per molti giuristi di diritto penale internazionale, la Convenzione stessa ha evidenti limiti di applicazione. Il crimine di genocidio riconosciuto dalla Convenzione ONU, infatti, non comprende, per esempio, lo sterminio dei gruppi politici, il cosiddetto genocidio culturale e la pulizia etnica (o purificazione etnica). Si tratta di violazioni che, per il diritto internazionale, possono essere punite come crimini contro l’umanità, ma non come genocidio, il “crimine dei crimini”. Anche i “crimini contro l’umanità”, come i “crimini di guerra” e i “crimini contro la pace e l’aggressione”, sono categorie generali che contengono al loro interno, in appositi documenti, i cosiddetti reati sottostanti finalizzati a individuare con più esattezza il crimine generale. E se gli elementi oggettivi molte volte coincidono, o addirittura si sovrappongono, come nel caso del reato di omicidio di civili in guerra, la differenza, tuttavia, risiede nell’elemento soggettivo: dolo speciale, colpa o dolo eventuale.
Per queste ragioni, sebbene illustrate in forma sintetica e non esaustiva, credo sia
quanto mai opportuno attendere sempre le decisioni delle Corti internazionali di giustizia prima di avventurarsi in facili e a volte ridicole conclusioni, aspettando già dalla fase dell’esplorazione penale, e cioè dalla difficilissima raccolta delle prove, i primi segnali dell’indirizzo della Corte. Secondo Hans Kelsen, a detta di molti il più grande giurista del Novecento, il diritto non solo non può, ma non deve allargarsi ad altre riflessioni: storiche, filosofiche, o addirittura legate alla sociologia del diritto. La sua, a buon titolo, era definita la Dottrina pura del diritto.