Firenze – Rifarsi ai Giganti della montagna, ultima incompiuta sinfonia pirandelliana, è un po’ come interrogarsi sul proprio lavoro di teatrante dopo anni e anni di impegni e progetti. Le domande che ruotano sull’asse di quest’ultima impresa sono tante.
Alla fine sempre le stesse. I giganti poi le gonfiano a dismisura, arrivano ultimi ma diventano i primi. Ingombranti. Certo ancora vivi e arrembanti ma oggi sempre più confusi. Retorici. Dove li mettiamo? Chi rappresentano? Sono davvero loro a spazzare via il regno che una volta avremmo della poesia? E poi, a far esistere i sogni (le speranze, gli aneliti) basta la creazione artistica, che ha la stessa dignità della vita, a prescindere dalla forma espressiva utilizzata?
E’ tempo di replicanti. Di ologrammi. Di realtà virtuale e intelligenza artificiale. Il dove siamo e chi siamo su quelle benedette assi del palcoscenico è esercizio virtuoso ma vano. Vero è falso sfuggono alla definizione. Alla messa a fuoco. Ragionarci sopra e interrogarcisi come fa Gabriele Lavia che i Giganti li organizza con la consueta, magniloquente destrezza, è segno di volenterosa energia, inesauribile passione. Di volontà forse di mettersi in gioco.
La finzione, l’immaginario, la fantasia, l’essere e l’apparire, i meccanismi della messinscena, l’autenticità della rappresentazione, la magia del teatro, insomma tutta l’impalcatura che Pirandello sviluppa da insuperato demiurgo, circonda i Giganti.
Che Lavia immerge in un teatro all’italiana diroccato, palchi e fregi da dopo terremoto, ricostruito da Alessandro Camera come metafora della decadenza culturale contemporanea, baluginante di tempeste scespiriane e attraversato da fantasmi felliniani (i clown dei Vitelloni e le ombre meccaniche del Casanova). Disponendo di larghi mezzi (produce il Teatro della Toscana insieme allo Stabile di Torino al Biondo di Palermo) Lavia/Cotrone pensa in grande. E non si fa mancare niente del suo guardaroba, allenato e costruito in tutti questi anni (anche alla Pergola) con coerente lucidità e il consenso del pubblico.
Lavia guarda l’universo della messinscena con la consapevolezza di chi può permettersi molti lussi. La sua è una dimostrazione di forza. Quanto salvifica per le sorti del teatro difficile dire. Scene, luci, musiche, suoni, effetti, cast (più di 20 elementi) tutto concorre alla creazione di un castello che Lavia immagina come il migliore dei teatri possibili.
Del resto è il mago. E’ Cotrone. Lui tiene le redini della tavolozza, lui governa la compagnia di anime incerte che vive di illusioni e illusionismi. Il trucco è sapersi gestire. Che gli altri si sbraccino pure, che urlino, ridacchino, cinguettino, sbraitino, che saltellino invasati come marionette meccaniche, che scendano in platea a rincorrersi e mischiarsi col pubblico, che restino macchiette volenterose e colorate.
A tenere le sorti dei Giganti, dunque di un teatro che si scaraventa (o almeno dovrebbe) come rullo compressore sulle banalità delle nostre esistenze, all’occorrenza a soccorrerci e guidarci e illuminarci nella selva oscura, basta la mia solitudine di interprete magico, il mio filosofeggiare denso di alchimie, il mio magnetismo crepitante di enfasi trattenuta, il mio recitar sognando. Il mio mestiere. Ancora fino a domenica.
Foto: Gabriele Lavia ne I Giganti della Montagna