IL SILENZIO E NON LA CRITICA UCCIDE GLI UOMINI DI TALENTO (Leonidas Donskis, Verità parallele)
La recente scomparsa dello storico libraio Nino Nasi ha prestato il fianco alla riapertura di una timida discussione (finora più celebrativa che sostanziale) su cultura e intellettuali a Reggio Emilia negli ultimi decenni. Discussione in realtà pressoché assente almeno dagli anni ’90 quando le due chiese, partito comunista e mondo cattolico, che si sono a lungo battute dal dopoguerra (a tratti e in certi luoghi “convergendo parallelamente”) si sono dissolte sul campo di un confronto propagandistico che si è trasformato da battagliero a totalmente silente. Improvvisamente, diciamo così per sopraggiunti motivi di reciproca convenienza dopo le maglie di Tangentopoli che hanno rarefatto più che cancellato i meccanismi di potere tradizionali.
La pur legittima richiesta di trovare una qualsivoglia forma di tutela immobiliar-architettonica dell’antro acculturato di via Crispi (una Via Crucis voluminosa più che un percorso iniziatico per pochi, fortunati ottimati) stride ancor più paradossalmente nel contesto amministrativo se si pensa che, per esempio il Mauriziano (dimora di vita e di scrittura di tal Ludovico Ariosto, quello sì scrittore epocale rispetto a Pier Vittorio Tondelli, importante certo ma per niente imprescindibile), resta un monumento di fatto agibile una tantum (è di pochi giorni fa la notizia che arriveranno dallo Stato i soldi per renderlo finalmente utilizzabile, ndr). E fruibile solo in occasioni estreme, come gli appena commemorati 500 anni dalla prima pubblicazione del Furioso. La collezione libresca di Nasi (non ce ne vogliano gli appassionati, è detto senza alcun intento sminuente) avrebbe fatto specie a qualsiasi insegnante di bibliografia e biblioteconomia impegnato in un’esposizione organica del sapere e dello scrivere e non tanto o non solo estetico. Ben vengano dunque tutti i tentativi, anche con il sostegno del sindaco di Reggio Emilia, di salvare la Libreria, ma come bottega storica: se non altro perché Nino Nasi non apparteneva a nessuna delle due chiese di cui sopra. Un salvataggio che sarebbe auspicabile anche per evitare che le poche vie e piazze pregiate del centro cittadino (le altre sono ormai una triste successione di vendesi, affittasi e negozi vuoti) si trasformino in un contenitore di bancarelle di cineserie nei giorni di mercato (come scrisse un paio di anni fa nientepopodimeno che il Financial Times) e di boutique.
La mancanza, dall’inizio della giunta Vecchi ad oggi, di uno specifico assessorato destinato alla cultura, prima volta nella recente storia degli esecutivi reggiani, è stata salutata dapprima da alcuni snob della conoscenza locale (improvvisamente orfani delle generose consulenze ai tempi delle vacche grasse pre-crisi) come una possibilità ulteriore di diffusione e fruizione della stessa (non si capisce come un’assenza possa mai rappresentare davvero una ricchezza in più). Questi illustri ed autoproclamatisi portavoce dell’intellighenzia cittadina, in prossimità delle elezioni amministrative 2014, scrissero una lettera pubblica in cui invitavano il primo cittadino a non istituire l’assessorato alla cultura, e comunicavano la loro disponibilità a liberarlo della “rogna” di gestire le politiche culturali del Comune. Ora però il dibattito, ancorché flebile, sembra registrare stilemi differenti. Ed i tripli salti carpiati dialettici che furono si mostrano in tutta la loro transitorietà. Nonostante, va sottolineato per ragioni di completezza espositiva, i notevoli sforzi dell’amministrazione nel recupero e nella valorizzazione di pezzi importanti della storia artistica di casa nostra.
Il mortorio critico contemporaneo (e che si procrastina ormai da alcuni decenni) è comunque diretto nipote della progressiva scomparsa negli ultimi anni dalla scena pubblica (magari ne esistono anche nascosti in qualche irraggiungibile cenacolo privato) di intellettuali capaci di leggere i flussi del dibattito contemporaneo senza necessariamente appartenere a qualche defunta ideologia. Od essere per questo funzionali ad un disegno di società che non risponda unicamente alla necessità di aggiornare i neuroni dei cittadini e dunque di migliorarne la vita in tutti i suoi aspetti. Nel secolo della Prima Repubblica (ammesso si sia sfociati in qualche numero successivo) la Democrazia cristiana non ha certamente salvaguardato il patrimonio di conoscenza di individui magari capaci di eccellere (preferendo l’occupazione di differenti forme di orientamento delle masse, diciamo così) lasciando al Pci ed altre organizzazioni legate alla sinistra la gestione pressoché completa dei media (tranne in parte la tv), intesi nella loro accezione più ampia di diffusione di idee, pensieri, gusti e stili di vita. Basti pensare agli enti culturali, come teatri e musei, o alla musica attraverso l’associazionismo, o appunto alla letteratura grazie alle librerie o ai concorsi. Per non parlare del pianeta della ricerca e delle università, da sempre (almeno in teoria) laboratorio per antonomasia di sperimentazione ed avanguardia.
Ed è anche figlio legittimo della rigorosa selezione da parte delle classi dirigenti dei propri portavoce nel mondo delle arti e dell’espressione non tanto in rapporto a valori assoluti bensì relativamente alla propria organicità ad un fine più di proselitismo che di indagine mentale. Per questo assistiamo ancora, con rinnovata scientificità, alla esaltazione anche di brave persone ma il cui profilo è davvero troppo debole per ricreare un clima di vigore culturale. Una mediocrità analitica che risponde alla necessità del terminologicamente corretto e che rema inevitabilmente, anche all’insaputa o contro la volontà di specifici suoi attori, verso la conservazione inevitabile dello status quo. In sostanza, il potere seleziona chi in qualche modo (più o o meno evidente) lo celebra (anche semplicemente nelle forme dell’adeguamento alle vulgate o al pensiero mainstream) dandolo in pasto al sistema plaudente e abbandona al proprio destino (non più schiacciandolo con la censura ma più sottilmente isolandolo silenziosamente nella pur rumorosa “democrazia social”) chi azzarda benché minime osservazioni interne. Il rischio omologante, contrario alla disputa e dunque ad una sintesi delle diverse opinioni, è facilmente immaginabile.
Già, la dialettica che non parta da posizioni preconcette, questa sconosciuta ai tempi del luogocomunismo 2.0. La progressiva scomparsa di un dibattito degno di questo nome va di pari passo alla trasposizione sui social pressoché totale della maggior parte dei propri pensieri e delle proprie convinzioni. Nella contemporanea comparazione di qualsiasi posizione e qualsivoglia idea. Non è lo strumento che equipara al ribasso il confronto concettuale ma l’uso che se ne fa. Proviamo a farci caso; indipendentemente dal valore esibito dallo scritto o dall’immagine sulla piattaforma usata, condividiamo e mostriamo compiacimento emoticon solo all’interno della cerchia di appartenenza (perlopiù transitoria) o verso l’individuo che sottosta’ rigorosamente ai meccanismi autoreferenziali del mezzo. Un atteggiamento che farebbe drizzare le antenne dell’interesse agli studiosi dei comportamenti settari. Quasi una nuova declinazione antropologica per la quale si dà ormai importanza maggiore alla propria immagine da ambiente virtuale dove non sono ammesse nemmeno battute di spirito (ree di turbare il disequilibrio dei social-media) rispetto a quella della vita reale (ove, vivaddio, qualche arguzia resta tollerata).
Ma di questo argomento ci occuperemo magari in un successivo, specifico scritto che potremmo intitolare “A-social network in facebookrazia”. Sperando che suoni come invito alla lettura e non come minaccia.