Alcuni titoli di giornali hanno (malauguratamente) accompagnato la descrizione dell’evento al Campovolo con la parola Woodstock.
Nell’agosto del 1969 6-700mila persone si diedero appuntamento per 4 giorni per assistere ad un Festival che avrebbe portato in scena le maggiori band inglese ed americane dell’epoca.
Vi parteciparono artisti del calibro di Jimi Hendrix, The Who, Santana, Joe Cocker, Jefferson Airplane (solo per citare i primi che mi vengono in mente). Fu apparentemente solo un festival: oggi viene ricordato come il più grande evento musicale moderno.
Un paragone fuori luogo, quindi, sotto ogni aspetto. Qualcuno potrebbe replicare che un artista da solo in questo caso ha superato le 100.000 unità, ma qualsiasi rock band contemporanea inglese, che decide di intraprendere una tourneè nel Regno Unito (quindi in casa) copre abbondantemente questo numero. E mediamente una rock band inglese non lascia passare più di 2-3 anni tra una tourneè e l’altra. Mi chiedo: l’artista in questione conosce il significato della parola tourneè? Conosce il significato dello spostarsi verso i propri fan, invece che costringerli a questo delirio d’onnipotenza a centinaia e centinaia di chilometri dalla propria città? Mi direte: quando faceva la gavetta, qualche tour l’ha fatto. Perchè ha smesso? Cosa si cela sotto il voler ad ogni costo celebrarsi sempre e solo con la quantità (degli spettatori, degli incassi, del merchandising) e mai con la qualità che fa rima con organizzazione e rispetto per chi ti acquista su I-tunes? Quanto c’è di rock (inteso nel senso più cristallino del termine) nel vedere il proprio artista preferito alto non più di 5 millimetri, sul filo dell’orizzonte?
La magia del rapporto tra spettatore ed artista sul palco è unica, ma tende ad essere dispersiva. La media di spettatori (di un concerto di medio richiamo) delle migliaia e migliaia di band in Inghilterra (patria qualitativa e quantitativa del rock) non arriva a 1500 persone. Spesso sono 500 i fan affezionati e vicini ai prorpi idoli. Non più di 15/20 metri dal palco: altri suoni, altre atmosfere. E in Inghilterra (quasi sempre) se hai pazienza e un po’ di fortuna alla fine di un concerto qualche chiacchiera con i tuoi beniamini la riesci a scambiare. Anche l’altra sera, vero ragazzi?
Mi direte: hai mai provato tu, alla fine degli anni 90, a stringere la mano dopo un concerto degli Oasis a Liam Gallagher? Rispondo vero, verissimo… ma è l’eccezione, non la norma. La cultura british che accoglie a sé la vera anima del rock, mette spesso sullo stesso piano artista e spettatore. Lo fa organizzando tourneè capillari, dalla Cornovaglia fino ad Inverness, in tutte le contee (nelle famose academy), si spingono spesso in Scozia, Irlanda e Galles, in luoghi perfettamente idonei per la musica, dove la capienza non supera quasi mai le 2000 unità (e sono stato di manica larga).
In Italia abbiamo bisogno invece di spingere l’ego dall’artista fino alla stratosfera. Sotto le 20.000 persone sei uno sfigato. O è sfigato il fan, che deve sorbirsi lunghi viaggi, spendere cifre d’ingresso folli, vedere arrivare (e ripartire) il suo Dio magari con l’elicottero, circondato sempre dai propri bodyguard? Questo comportamento è la causa o l’effetto? Diventi sempre più famoso perchè ti esibisci sempre meno? Oppure ti esibisci sempre meno perchè diventi più famoso?
Il rock, secondo me, ha bisogno di tanta visibilità, sopratutto spalmata nel tempo: difficile trovare rock band inglesi che lascino trascorrere lassi di tempo così lunghi tra un esibizione e l’altra. Lo sanno bene: in un contesto dove la concorrenza creativa è fortissima, scomparire equivale a morire. E sanno benissimo che sulle vendite dei cd non puoi più fare affidamento: e-mule e simili hanno distrutto le vendite. E allora suonano. Suonano. Suonano.
E più suonano, meno il concerto diventa evento trasformandosi in cultura notturna sempre più popolare. Altro che tv o internet.
Chiudo tornando al paragone tra il Campovolo e Woodstock: in Gran Bretagna, ogni estate, decine e decine di festival rock vengono organizzati coinvolgendo centinaia di band, per tutti i gusti, per tutte le età, per tutte le tasche. Glastonbury, Big Feastival, Electric Picnic Festival, Galtres Festival e tantissimi altri ancora. Nei 2, 3 o 4 giorni, la collettività trae un vero beneficio sia in termini di visibilità (vera), supportata da iniziative culturali, storiche, gastronomiche e sia, dulcis in fundo, anche nei benedetti termini economici. Tutti remano nella stessa direzione: amministratori, manager musicali, volontari, forze dell’ordine. Visitate i siti, per farvi un idea: vi stupirete dall’altissimo livello organizzativo.
E gli artisti più in voga non hanno nessun problema ad esibirsi insieme a perfetti sconosciuti, a giovani band in ascesa perchè in quei raduni, così variegati e poliformi, conta solo la musica. E un po’ meno chi la fa.