Firenze – Arriveranno nel 2050 e sarà la svolta della composizione sociale italiana, con l’apporto di 5,7 milioni di persone che andrebbero ad ingrossare le fila dei poveri. I “candidati”? Precari, Neet, working poor e “lavoro gabbia”, se questa tendenza non dovesse essere invertita.
Le caratteristiche per l’avverarsi di questo dramma sociale sono il ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro, la discontinuità contributiva, la debole dinamica retributiva che caratterizza molte attività lavorative. A lanciare l’allarme è Censis/Confcooperative, con l’elaborazione di un documento sulla base dei dati Istat che racconta “uno scenario preoccupante sul futuro previdenziale e la tenuta sociale del Paese, dove le condizioni di nuove povertà, determinate da pensioni basse, saranno aggravate, inoltre, dall’impossibilità, per molti lavoratori, di contare sulla previdenza complementare come secondo pilastro pensionistico”. Il focus si chiama “Millennials, lavoro povero e pensioni: quale futuro?”.
Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative, non ci va per il sottile, definendo la situazione “una bomba sociale che va disinnescata”. E il futuro governo non può esimersi dall’impegno sui due aspetti che rappresentano le radici,neanche tanto sotterranee, della prospettata “bomba sociale”: si tratta di due concetti che finora non andavano a braccetto, lavoro e povertà, considerando che sono molti, sempre di più, i cosiddetti working poors, vale a dire, “lavoratori poveri”. Una delle soluzioni su cui Confcooperative chiede il massimo impegno è la costruzione di “un patto intergenerazionale che garantisca ai figli le stesse opportunità dei padri. Non sono temi di questa o di quella parte politica, ma riguardano il bene comune del paese. Sul fronte della povertà il Rei con un primo stanziamento di 2,1 miliardi che arriverà a 2,7 miliardi nel 2020 fornirà delle prime risposte, ma dobbiamo recuperare 3 milioni di Neet e offrire condizioni di lavoro dignitoso ai 2,7 milioni di lavoratori poveri. Rischiamo di perdere un’intera generazione”.
La discriminazione tra generazioni è infatti evidente. “Già oggi – si legge nella nota di Confcooperative – il confronto fra la pensione di un padre e quella prevedibile del proprio figlio segnala una decisa divaricazione del 14,6%. Il sistema previdenziale obbligatorio attuale garantisce a un ex dipendente con carriera continuativa, 38 anni di contributi versati e uscita dal lavoro nel 2010 a 65 anni, una pensione pari all’84,3% dell’ultima retribuzione (tab. 1). A un giovane che ha iniziato a lavorare nel 2012 a 29 anni, per il quale si prefigura una carriera continuativa come dipendente, 38 anni di contribuzione e uscita dal lavoro nel 2050 a 67 anni, il rapporto fra pensione futura e ultima retribuzione si dovrebbe fermare al 69,7%, quasi quindici punti percentuali in meno”.
Ma questa è solo la migliore delle ipotesi. Per 5,7 milioni di persone potrebbe andare molto peggio, come spiegano da Confcooperative, consideriamo ad esempio che sono oltre 3 milioni i Neet (18-35 anni) che hanno rinunciato a ogni tipo di prospettiva a causa della mancanza di lavoro. Aggiungiamo a questi i 2,7 milioni di lavoratori, tra working poor e occupati impegnati in “lavori gabbia” confinati in attività non qualificate dalle quali, una volta entrati, è difficile uscire e che obbligano a una bassa intensità lavorativa pregiudicando le loro aspettative di reddito e di crescita professionale. A tutto ciò si aggiunge, continua la nota, un problema di adeguatezza del “rendimento economico” del lavoro che espone al rischio della povertà.
Dunque anche lavorare può non bastare: ricorda la nota che continua lo slittamento verso il basso degli stipendi e remunerazioni, senza ostacoli in Italia dove non è previsto il minimo salariale. Un andamento che reca con se’ anche una conseguenza di lungo termine, vale a dire la sostenibilità, sempre meno possibile, dei sistemi di welfare. Si sta considerando, per dare concretezza al discorso, le varie tipologie di lavoro “a bassa intensità” o a “bassa qualità” sempre più diffuse.
Fra i giovani il fenomeno è particolarmente evidente. Sono, secondo l’indagine, 171mila i giovani sottoccupati, 656mila quelli con contratto part-time involontario e 415mila impegnati in attività non qualificate. Ciò comporta una situaizone in cui il lavoro non è adeguato nel suo ruolo di fonte di reddito, tanto da diventare “causa di marginalità rispetto alla potenziale disponibilità del lavoratore”.
Quasi scontato, purtroppo, il divario che continua ad opporre Nord e Sud, a partire dai Neet (coloro che non studiano e non lavorano) che risiedono per oltre la metà del totale di 2 milioni al Sud (1,1 milioni) con un concentramento in sole due regioni, Sicilia e Campania, di ben 700mila unità (in Sicilia 317mila, in Campania 361mila).