Papà, mi si è allargata la noia

Bob Rontani versus lo spleen dei giovanissimi

Bob Rontani

Un sabato qualunque, a metà pomeriggio, in casa con moglie e figlio. Giornata di quasi relax, si attendono ospiti a cena: un altro papà, un’altra mamma ed il loro figliolo, compagno di classe. Di mio figlio.

Quadretto perfetto se non fosse che mio figlio, transitandomi a fianco mentre attacco un quadro in precario equilibrio, sbuffa e pronuncia quelle parole che mai e poi mai avrei voluto sentire: “Papà, mi annoio. Non so cosa fare…”.

Evitando la martellata sul dito, lo guardo stupito e gli rispondo la prima cosa che mi passa per la testa: “Porta pazienza… fra poco arriva il tuo amico…”

Ma la cosa non (mi) finisce lì: appoggio il martello e alla mente ritorna la mia infanzia.

Alla sua età (10 anni), penso di non avere mai pronunciato la parola noia. E forse la pronunciavano in pochi, negli anni 70, nell’Italia dei miracoli, dove tutto era in entusiastica espansione. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, noi maschietti potevamo contare sui “Fantastici quattro”: il Lego, la Polistil (pista elettrica di macchinine a circuito), il Meccano ed i soldatini.

Ricordo benissimo i pomeriggi a casa della mia nonna materna: liberavo il lungo tavolo rettangolare di noce, schieravo plotoni di soldatini (i mitici Airfix in scala 1:72) e il tempo non bastava mai. Battaglie su battaglie, agguati, imboscate, scontri furiosi. I soldatini erano piccoli, e non credo di averne avuti meno di 2000. Una goduria.

Con il Lego, le cose non cambiavano (era il Lego di allora, con qualche ruota e le finestre per le case): macchine, aerei, casette… Le ore volavano, e come mi raccontarono in seguito mia madre e mia nonna “…neanche ci accorgevamo che c’eri…”

In quei tempi (nel fine settimana – allora si chiamavano semplicemente sabato, o domenica) nelle giornate piovose o particolarmente fredde, se non stavi in casa con i fantastici quattro, uscivi, stavi nelle via con gli amici del quartiere.

Perché a quel tempo, avevi due gruppi di amici: quelli in classe con te, che raramente incontravi fuori dalla scuola (ricordate che quando ci si incontrava ci si salutava per cognome?) e quelli che abitavano vicino a te (di tutte le età, alti e bassi, ricchi e poveri, maschi e femmine). Si studiava un’oretta o poco più (ancora non esistevano le estenuanti maratone di studio odierno) e poi giù con gli amichetti del quartiere, fino a sera.

Ora, ahimè, i bambini non possono più giocare in strada.

Per far sì che tuo figlio possa trascorrere un po’ di tempo in compagnia, sei costretto ad organizzare spostamenti super-programmati, spesso dall’altra parte della città.

E sempre e solo nei week-end.

Oggettivamente qualcosa, in questa ingorda e iper-protettiva società, è andato perduto.

Fine dell’esperienza di strada. Vi pare poco?

Nella strada si cresceva ascoltando tutti, cercando di essere amici con tutti, e bastava un pallone o la cerbottana con lo stucco (ve la ricordate?) per essere sereni e sfiniti alla sera. Sporchi ma felici.

Che sia l’inizio della noia? Probabile, ma il colpo di grazia l’ha dato l’avvento dei nuovi giocattoli tecnologici.

Costretti al riparo nelle mura domestiche, i nostri ragazzi fagocitano tutto quello che le moderne consolle propinano, grazie anche alla complicità di reti commerciali che ben si guardano dall’etica ormai europea, del divieto di spot nei programmi pomeridiani per bambini.

Colori luccicanti, personaggi improponibili, situazioni impensabili e tanta (finta) manualità per risolvere le situazioni più intricate e per un divertimento di breve durata.

Il percorso, però, è fasullo.

In un qualsiasi gioco elettronico, solo apparentemente viene stimolata la fantasia del fruitore. Basandosi su migliaia di schemi (quasi) ripetitivi, la componente di creatività è ridotta al minimo: la conseguenza della ripetitività, non accompagnata appunto dalla fantasia, riduce i bambini a comportamenti isterici facilitati dalla possibilità del game-over e dalla ripartenza automatica.

Con il risultato (già abbondantemente studiato da tanti esperti) di turbe del sonno e del comportamento.

Il gioco è fatto: ripetitività fa rima con noia.

Allora, come uscire dal ginepraio?

Lentamente, con immensa pazienza, cerco di far marcare a mio figlio le differenze. Lo esorto ad osservare, a vedere il mondo con gli occhi sia dell’architetto che del muratore.

Limito gli usi per evitare gli abusi.

Cerco di convincerlo ad invitare quegli amici che con lui passano il tempo travestendosi con i vecchi costumi da carnevale, giocano a carte o tirano due calci al pallone nel piccolo giardino, nella segreta speranza di non vederli schiavi di microcircuiti e chip.

Pochi giorni fa, con due lenzuola, un berretto e qualche spada di plastica, ho visto lui ed un suo amico giocare ai pirati nell’isola del tesoro: ero contento nel vederli così impegnati, felici e, in un certo senso, rilassati. Insomma, bambini veri.

Non sarà molto, ma mi ha spronato ad attaccare meglio il quadro.

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