Pisa – Nel maggio 2014 alla vigilia del pellegrinaggio di papa Francesco in Medioriente, grazie al comune amico Cesare Pavoncello, abbiamo avuto modo di avere un lungo colloquio con lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua, “riflessioni” che riportammo in un capitolo del nostro libro dedicato a quell’evento storico (Francesco in Terra Santa, Edizioni ETS 2014). Stralci che oggi dedichiamo alla memoria di un grande scrittore e intellettuale del nostro tempo. Un gigante che con il suo impegno in favore della pace ha rappresentato un faro della sinistra, israeliana e non.
«A differenza di quello che è stato da molti sostenuto nell’ultimo secolo e mezzo e in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, dobbiamo ricrederci sul fatto che di fronte al razionalismo e alla tecnologizzazione le religioni siano destinate a soccombere. Sembra invece che, in queste condizioni che si fanno sempre più estreme, l’uomo abbia bisogno di un angolo in cui regni l’emozionalità, la fede. Ma se per molti la religione può rappresentare un angolo caloroso e sano dove dare spazio alla propria spiritualità e alla propria fede, altri la portano a estremismi pericolosi, soprattutto quando viene legata a ideologie nazionaliste, settarie e a pratiche mistiche o addirittura magiche, che non possono portare a nulla di buono né su un piano individuale né tanto meno su uno sociale.
Penso che soprattutto in questo suo viaggio Francesco dovrebbe agire per rafforzare lo status dei Cristiani tanto in Israele quanto nell’Autorità Palestinese, di fronte all’ondata di fanatismo sia di gruppi ebraici che islamici. I cristiani israeliani vivono una difficile situazione in cui dai loro fratelli musulmani sono respinti in quanto cristiani e dalla popolazione ebraica non sono accolti bene tanto per il fatto di essere arabi, quanto per la loro religione, ancora vista con sospetto; in realtà la grande maggioranza di questa parte della popolazione israeliana propende per una maggiore integrazione nella società israeliana ebraica. Considero di primaria importanza la loro presenza qui, nella nostra società; fanno parte della storia di questo luogo, sono per diritto parte del suo tessuto storico e religioso e non deve assolutamente avvenire ciò che è già successo in Libano ma anche in molti altri paesi del Medio Oriente – compreso nell’Autonomia Palestinese – dove c’è una progressiva emigrazione del popolo cristiano. Per questo spero che Papa Francesco trovi il modo di sostenere e rafforzare i cristiani in Israele e di incitare il mondo cristiano a ricongiungersi con il luogo di origine della propria religione, sentendosi liberi di visitarlo, venirlo a conoscere e compiervi il proprio pellegrinaggio religioso. La Terra Santa e tutti i suoi luoghi sacri devono essere aperti a tutti i culti.
Alla politica oggi occorrono coraggio, saggezza, capacità di chiedere ma anche di dare e soprattutto di distinguere l’essenziale dall’irrilevante. Per tradurre le mie parole in termini pratici, dico che se Netanyahu considera così importante il riconoscimento di Israele come stato ebraico e Abu Mazen vuole di contro che sia detto chiaramente che i confini del futuro stato palestinese ricalcheranno quelli di prima della vigilia della Guerra dei Sei Giorni del ‘67, ebbene che i due scambino questi due riconoscimenti, la cui sostanza è fondamentalmente accettata dalle due parti. C’è qualcuno – Abu Mazen compreso – che può negare l’ebraicità d’Israele? E c’è qualcuno – Netanyahu compreso – che pensa a uno stato palestinese in confini molto diversi da quelli del Giugno ‘67, salvo gli scambi di territori di cui si è già ampiamente discusso? Altro esempio: il diritto al ritorno dei Palestinesi nei confini di Israele non è realistico se si vuole veramente arri- vare a una pace – e questo lo ha riconosciuto lo stesso Abu Mazen – ma in cambio di questa rinuncia deve essere dato anche a loro uno status legale a Gerusalemme perché sia la capitale anche dello Stato Palestinese. E così via per tutti i nodi veramente importanti del conflitto e sui quali le due leadership devono assolutamente trovare il modo di ricevere e dare, ricevendo ciò che è fondamentale e riconoscendo all’altro lo stesso diritto.
I leader dei due popoli devono prendere il coraggio a due mani e fare i passi necessari senza curarsi – da una parte e dall’altra – delle frange estreme, dell’integrità della loro coalizione politica. Almeno per quello che riguarda Israele, posso dire che anche oggi, nonostante tutti i problemi, lo scoraggiamento di molti e la reciproca sfiducia fra i due popoli, c’è una netta maggioranza nell’ambito dell’opinione pubblica israeliana a favore di un accordo di pace che presenti sufficienti garanzie. Se poi l’alternativa per Israele è uno stato binazionale in cui, stando ai dati demografici, la popolazione ebraica è destinata a divenire minoranza, per i palestinesi è il perpetuarsi di livelli di vita bassissimi, e per tutti e due è continuare a vivere in una situazione conflittuale che costa ai due popoli lacrime e sangue – beh, allora, non so proprio che cosa Netanyahu e Abu Mazen stiano aspettando. Chissà che Papa Francesco non riesca a instillare in questi leader il sentimento e la ragione necessari per superare gli ostacoli verso la pace.
Infine, se dovessi regalare a Papa Francesco un mio libro sceglierei senz’altro Il signor Mani perché è un racconto che nella sua prospettiva storica fa assaporare tanto il presente quanto il passato di questo paese, facendo capire la sostanza del conflitto, vale a dire che non c’è un popolo che ha diritti sulla terra mentre l’altro è un intruso: questa terra appartiene tanto agli arabi quanto agli israeliani e, come in passato la convivenza è stata possibile, il futuro che il libro vuole indicare è quello in cui si ritrovi la strada del rispetto reciproco nell’ambito di un compromesso territoriale».
Alfredo De Girolamo Enrico Catassi