Firenze – La fine della pace. Quelli che stiamo vivendo sono giorni difficili di un’estate dove i terroristi ci stanno portando ad una guerra mondiale. Ma non chiamatela guerra di religione: è lo scontro tra ragione e delirio. È l’esplosione del lato oscuro della globalizzazione, dell’economia senza regole, di una finanza che sta arricchendo i più ricchi a danno dei più poveri, non c’è da chiedersi da quale parte è Dio.
Nel momento più intenso di un conflitto ormai epocale Francesco è il terzo papa a compiere la visita in un campo di sterminio nazista, rinnovando una tradizione consuetudinaria, dopo i suoi predecessori Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI. Il santo polacco entrava ad Auschwitz il 7 giugno 1979: “Luogo, costruito sull’odio e sul disprezzo dell’uomo nel nome di un’ideologia folle, luogo costruito sulla crudeltà”. Karol Wojtyla pontefice del dialogo fraterno tra cristianesimo ed ebraismo, ideologo della necessità di costruire ponti interculturali, è il primo vescovo di Roma a oltrepassare la scritta “Arbeit macht frei” che “ha un suono beffardo, perché il suo contenuto era radicalmente contraddetto da quanto avveniva qua dentro, in questo bunker della fame”. Una visita dovuta, un obbligo morale verso la storia del suo paese e quella del mondo: “Vengo qui oggi come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui… Non potevo non venire qui come Papa”. In quel viaggio apostolico, nella Polonia comunista, lasciò una intensa testimonianza sull’orrore dell’abominevole degenerazione umana, mentre USA e URSS combattevano la guerra fredda in un clima di minaccia nucleare: “Auschwitz è un tale conto con la coscienza dell’umanità attraverso le lapidi che testimoniano le vittime di questi popoli che non lo si può soltanto visitare, ma bisogna anche pensare con paura a questa che fu una delle frontiere dell’odio”.
Dopo di lui, toccò a Benedetto XVI ripercorrere quei luoghi d’infamia razzista, era il 28 Maggio 2006: “Il passato non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere”. Il Papa cresciuto nell’era buia del nazismo, tra i mostri del male hitleriano, giovane soldato del Reich e poi disertore prima di entrare in seminario: “Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania”. Angoscia ed espiazione nella preghiera di Ratzinger: “ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa”.
Dieci anni e il pellegrinaggio si ripete, il capo chino del Papa venuto dall’Argentina sfiora il muro della morte nella piazza dell’appello del campo di Auschwitz, la profondità del silenzio è la liturgia pastorale scelta per la visita nel luogo del peggior sterminio, qualsiasi parola lì sarebbe riduttiva. E poi Bergoglio ha già avuto modo di elevare il suo monito dalla stanza del memoriale dello Yad Vashem di Gerusalemme durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa nel 2014, con un eloquente: “Dove sei, uomo?”. In Medioriente, Africa, Asia e adesso anche in Europa i nazijihadisti profanano chiese e sinagoghe. I sacerdoti, fuori e dentro i confini delle radici storiche del cristianesimo, pagano con la vita la propria fede missionaria. Decine sono stati sgozzati in questi anni in un silenzio, questo sì, deplorevole. È in atto una guerra che per Bergoglio “non è organica” e la sfida deve essere affrontata con “coraggio e verità”, sollecitando “collaborazioni e sinergie a livello internazionale al fine di trovare soluzioni ai conflitti, che costringono tante persone a lasciare le loro case, la patria”.