Pisa – Un viaggio “triste” quello di papa Francesco nel Mar Egeo, sull’isola di Lesbo, nel luogo simbolo del dramma dei profughi: “la catastrofe umana più grande dalla Seconda Guerra Mondiale”. Un pellegrinaggio lampo per lanciare un messaggio di accusa al paradigma della politica europea. Lui che sulla questione dei migranti non ha mai smesso di pronunciare parole forti, coraggiose, sopra le righe, lanciando a ripetizione martellanti richiami, inascoltati dai potenti del mondo, “insensibili”, sino ad oggi, alla sua catechesi, alla sua rivoluzionaria visione.
Significativo il tweet lanciato poco dopo il decollo: “I profughi non sono numeri, sono persone: volti, nomi, storie, e come tali vanno trattati”. Da giorni sull’isola sono in corso le operazioni di espulsione verso la Turchia dei migranti non regolari, in base ai recenti, discussi e discutibili, accordi previsti dall’Ue con Ankara. La maggior parte dei “respinti”, non in possesso di domanda di asilo politico dalla Siria, provengono dal lontanissimo Pakistan, per loro un lungo calvario che dalla “terra dei puri” li ha condotti alle acque del Mare Nostrum nella speranza di entrare in Europa, e che invece sono in attesa di essere “impacchettati come merce” per un triste viaggio a ritroso, “scambiati” con profughi di altra provenienza.
La macchina burocratica dei respingimenti, paradossalmente, procede con lentezza a causa della mancanza di personale in grado di svolgere le procedure di espulsione. Mentre molti isolani da mesi compiono semplici, teneri e silenziosi atti di umana generosità. Più rumorosa la protesta degli attivisti dell’associazionismo nel tentativo di fermare le navi pronte a salpare verso la Turchia, paese terzo definito sicuro ma che non riconosce la Convenzione di Ginevra.
A Lesbo e nel Continente in queste ore la civiltà europea è investita dal dilemma paura o solidarietà. La forza morale e storica della fratellanza è coltivata dal pontefice che professa il vangelo dell’accoglienza, della misericordia, “delle periferie”. Attraverso gesti di denuncia non convenzionali che trascendono le sottigliezze dei protocolli diplomatici e delle delicate relazioni interreligiose, che lo portano nella realtà del campo (hotspot) di Moria a stringere mani, ascoltare, abbracciare, asciugare le lacrime, dividere il pasto con i profughi. Giovani pakistani, siriani, iracheni, curdi e yazidi affollano le transenne e applaudono il passaggio del Santo Padre, espongono scritte che si commentano da sole: «Libertà». «Aiuto». «Per favore salvateci».
E lui risponde: “Non siete soli. Porto con me il vostro dolore”. Cammina, fianco a fianco, “fraternamente” con l’arcivescovo di Atene Ieronimos II e il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I. Oltre lo scisma e i dibattiti teologici pregano insieme per le vittime nel cimitero del Mediterraneo, condividono i flash dei fotografi, lanciano congiuntamente un appello urgente alla comunità internazionale, appongono la propria firma ad una dichiarazione ecumenica. Sullo sfondo un’intesa storica, l’unità tra le chiese cristiane nell’obiettivo di mobilitare l’opinione pubblica mondiale sulla situazione delle comunità arabo-cristiane, la minoranza invisibile del Medioriente, vittime della violenza del fondamentalismo islamico: “costruire la pace là dove la guerra ha portato distruzione e morte”.
Anche l’Europa è chiamata in causa, in alcuni Stati dell’Unione prevalgono frontiere e fortezze, una mappa frastagliata di ostacoli che relegano gli accordi di Schengen a carta straccia, un elenco di muri e filo spinato: Idomeni, Ceuta, Melilla, Vyssa, lungo i confini di Bulgaria e Ungheria, provvisorie e immateriali barriere riguardano Ventimiglia e Calais. Ed infine, il caso del varco del Brennero tra Italia e Austria. In tanta divisione l’aereo di papa Bergoglio, in perfetto orario e stile, imbarca 3 famiglie di profughi siriani, destinazione Roma: “L’Europa sia patria dei diritti non respinga i migranti”.
Alfredo De Girolamo Enrico Catassi
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