Pandemia e guerre: la rivoluzione della logistica cambia il mondo

Un termine nuovo, Friendshoring: la tendenza a limitare le filiere agli alleati

Il tema delle supply chains è balzato agli onori della cronaca in concomitanza con la diffusione del Covid-19. Fino ad allora se ne trovavano scarse tracce nell’informazione e non godevano di particolare accoglienza neppure nell’opinione pubblica. Lo stesso termine filiera o catena del valore prima del marzo 2020 era noto soltanto agli specialisti della materia. Come è stato scritto autorevolmente di recente, finché funzionano le filiere del commercio internazionale sono invisibili agli occhi nel loro esprimere il progresso tecnologico e informatico della nostra epoca. Quando invece in caso di crisi subiscono rallentamenti o persino trasformazioni diventano argomento di interesse e si scopre quanto siano in grado di prestarsi a funzionare da chiavi di lettura della globalizzazione. Le motivazioni dell’inflazione, che sta erodendo il nostro potere di acquisto, non risiedono tanto nella crisi energetica quanto invece nell’altalenante funzionamento delle catene di approvvigionamento.

Quanto è successo nel corso degli ultimi anni è noto a tutti: alla pandemia ha fatto seguito la guerra in Ucraina e più recentemente la crisi in Palestina con la conseguente comparsa sulla scena degli Houthi, gruppo armato yemenita attivo nella guerra civile, che da tempo funesta quel paese arabo. Da qualche anno, quindi, il flusso regolare di commercio internazionale prevalentemente marittimo non funziona più come in passato, quando in pratica ha costituito la spina dorsale degli scambi su scala globale, favorendo delocalizzazione e sviluppo economico soprattutto a favore dei nuovi paesi protagonisti dell’economia globale. Si pongono oggi questioni di sicurezza dei corridoi e delle infrastrutture collegate, compresi i cavi che garantiscono le connessioni internet, i gasdotti e gli oleodotti. Sono ormai una preoccupazione di primo livello sia per i governi sia per gli operatori economici.

Il carattere strategico delle supply chains è indubbio e non solo in ambito economico. Hanno assunto una centralità assoluta nei processi di globalizzazione: sulle navi cargo viaggia su e giù per gli oceani il 90% di tutto, come recita il titolo di un libro di successo di qualche anno, in cui l’autrice racconta la propria esperienza a bordo di una nave carica di container (Rose George, Ninety Percent of Everything. Inside Shipping, the Invisible Industry That Puts Clothes on Your Back, Gas in Your Car, and Food on Your Plate, New York, Picador, 2014). Altrettanto certamente hanno inoltre contribuito in maniera decisiva alla trasformazione logistica del mondo, riconfigurando ampie aree e regioni, all’interno delle quali interventi infrastrutturali e urbanistici trovano nella logistica – in quanto governance dei flussi, delle connessioni e della mobilità – un principio organizzatore fondamentale che ha rimodellato le forme produttive e gli spazi politici. Attraverso la realizzazione di parchi dedicati, interporti, vie di comunicazione e servizi per l’intermodalità la logistica definisce il rapporto tra il territorio e la scala della sua organizzazione politica ed economica.

La logistica ha una lunga storia alle spalle fatta, è vero, più di elementi militari e amministrativi, ma non è improprio scorgere nel passato elementi, che in qualche misura prefigurano le soluzioni attuali. A volere adottare una vista lunga, dai Fenici ai Romani fino alla Compagnia delle Indie passando per le Repubbliche marinare e gli esploratori-mercanti portoghesi fino al colonialismo europeo, gli esempi si moltiplicano. Negli anni Sessanta del XX secolo la logistica ha maturato il ruolo di paradigma organizzativo complessivo di gestione della catena produttiva, ampliando illimitatamente le dimensioni della fabbrica fordista con una catena di montaggio planetaria, lungo la quale i flussi di merci si muovono ininterrottamente. Il mare ha costantemente rappresentato un elemento essenziale nell’economia e nel potere, quindi si sono sempre rivelate cruciali le modalità di controllo e di gestione delle vie marittime e dei porti del tutto funzionali – in quanto logistiche – allo stabilimento delle gerarchie globali del potere economico. La capacità da parte delle navi container di abbattere i costi nel trasferire merci anche di poco valore da un continente all’altro le rende fra le principali protagoniste dei processi di globalizzazione economica. La società di oggi è modellata dalla logistica, dal bisogno cioè di spostare beni nello spazio e nel tempo. La logistica è responsabile del funzionamento delle filiere e al tempo stesso è la ragione della loro stessa esistenza. Il suo compito è quello di progettare sistemi di distribuzione di cose materiali e immateriali, di organizzarne e coordinarne il flusso al fine di ottimizzarne la coordinazione in un contesto complesso e molteplice che esprime una elevata densità operativa, garantendo in tal modo la massima efficienza economica.

Due sono in definitiva gli elementi decisivi necessari a capire il successo delle global value chains negli ultimi decenni: da una parte la capacità di gestione di sistemi complessi permessa dagli enormi progressi delle tecnologie informatiche e dall’altra l’imporsi di sistemi di trasporto fluidi come la containerizzazione. L’area asiatica è quella nel mondo che ha tratto il giovamento maggiore da questa rivoluzione. Se oggi le principali novità economiche provengono da quel continente lo dobbiamo al trasferimento di opportunità industriali dai centri del capitalismo occidentale verso quelle che nei “roaring Nineties” erano ancora periferie del mondo e che oggi invece lo dominano.

Sull’altro lato, assistiamo da tempo ad una progressiva riconsiderazione dello spazio europeo per la perdita di baricentro dovuta alla nuova politica dei corridoi, che trovano altrove forme organizzative autonome. La rivoluzione logistica spinge il mondo verso una conformazione geopolitica multipolare, rimettendo in discussione il rapporto fra sovranità e globalizzazione. Una simile trasformazione non sarebbe stata possibile senza i milioni di chilometri macinati dalle navi cariche di container, che senza sosta hanno arato i mari. Ha ragione chi ha notato che si è trattato del più intenso scambio di capitali, materiali e competenze mai accaduto. Ma il risultato non è stato il mondo piatto, che un celebre economista immaginava quasi una ventina di anni fa (Thomas L. Friedman, Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo, Milano, Mondadori, 2006) quanto piuttosto un mondo ridisegnato dalla logistica, che l’ha reso una mappa punteggiata di connessioni e snodi più incisivi dei vecchi confini politico-amministrativi, che tendono a mandare in secondo piano caratteri geografici e ideologie politiche non coincidendo con nessuna regione territoriale esistente. In ultima analisi, la logistica oltre a creare un capitalismo di filiera ha introdotto una spazialità inedita nel mondo globale.

L’equilibrio dinamico ha cominciato a rompersi con la pandemia, che ha causato la sospensione globale di gran parte delle funzioni logistiche a partire dalla ridotta attività delle attività marittime. Il commercio internazionale ha sofferto l’interruzione della catena logistica incapace nel momento dell’emergenza di garantire l’usuale efficienza in termini di tempo e di costi, si sono rivelate estremamente fragili. Del resto, le catene logistiche globali sono progettate per funzionare in scenari stabili e perdono il proprio valore aggiunto in caso di crisi. Ciò è avvenuto anche in occasione della guerra in Ucraina alla base di un rallentamento generale delle filiere, che ha portato per la prima volta a ridiscuterne il significato politico. Più precisamente, ha debuttato nel dibattito economico e politico un termine nuovo – friendshoring – la tendenza cioè a limitare le filiere a paesi alleati, quindi riducendo il raggio d’azione delle connessioni, ma rendendole più sicure rispetto a rischi geopolitici. Una tale scelta rende le catene di approvvigionamento meno esposte a possibili interruzioni o rallentamenti. Sono in tanti a pensare oggi che la supply chain globale sia troppo lunga, come James Rickards, autore di un bestseller come Sold Out. How Broken Supply Chains, Surging Inflation and Political Instability Will Sink the Global Economy.

Da ultimo sono arrivati gli Houthi, che per reazione alla guerra di Israele nella striscia di Gaza attaccano qualsiasi nave portacontainer, che abbia una qualche relazione con quel paese, bloccando in pratica le comunicazioni attraverso il canale di Suez, un corridoio marittimo responsabile di circa il 15% del trasporto del commercio mondiale. Le conseguenze di una tale situazione sono un forte allungamento dei tempi di navigazione per il fatto che molte navi esitano ad affrontare il pericoloso tratto o addirittura si rassegnano al periplo del continente africano passando per il Capo di Buona Speranza; e un inevitabile e marcato aumento dei costi dello shipping – in particolare quelli assicurativi – agli stessi livelli osservati nella seconda metà del 2021 dopo più di un anno di pandemia.

Le supply chain maggiormente in sofferenza sono quelle del settore alimentare e quelle industriali basate sul just in time. Le rotte che invece riescono ad evitare il problema degli attacchi degli Houthi sono quelle del Pacifico: se gli effetti degli sconvolgimenti nel mar Rosso dovessero trasmettersi anche alle filiere indo-pacifiche dei chip, le conseguenze sull’economia globale sarebbero di ben altra portata.

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