Palestina, No Other Land: un destino comune è possibile

il caso del clamore suscitato dal docufilm premiato con l’Oscar

La normalizzazione e l’anti-normalizzazione sono due aspetti culturali (e politici) radicati nel conflitto israelo-palestinese. Che alimentano la polarizzazione delle rispettive società. Retorica oscurantista e cecità mistificante investono qualsiasi tentativo di rompere uno schema binario già prefissato. È il caso del clamore suscitato dal film “No Other Land”, proprio perché esula dal fanatismo della narrativa di guerra. Samah Salaime, scrittrice palestinese, in un lungo articolo apparso nel magazine +972 affronta questo delicato dibattito: «Il contraccolpo era inevitabile. Non appena i registi del film “No Other Land” Basel Adra, Yuval Abraham, Hamdan Ballal e Rachel Szor hanno ricevuto l’Oscar per il miglior documentario, raccontando la storia della pulizia etnica in corso da parte di Israele nella regione di Masafer Yatta in Cisgiordania occupata, – luogo da dove provengono Basel e Hamdan – sono scoppiate le polemiche.

Il ministro della Cultura israeliano Miki Zohar ha accusato la pellicola di “diffamazione” e “distorsione dell’immagine di Israele”, esortando le sale cinematografiche del paese ad astenersi dal proiettarlo. Molti media israeliani si sono affrettati a denunciare il docufilm come “propaganda” o “calunnia”, mentre gli autori ricevevano una raffica di velenose aggressioni sui social media… Quello che molti di noi non avevano previsto, tuttavia, era quanto sarebbe stata pesante la critica da parte di alcuni attivisti, organizzazioni e influencer filo-palestinesi. Con Yuval e Rachel, i due registi israeliani, tacciati di fingere solidarietà con i palestinesi, mentre in realtà promuovono una forma sottile di “sionismo liberale”». In particolare la “stonatura o stroncatura” evidenziata da Salaime, a cui replica garbatamente smontandone completamente la consistenza, è la posizione ufficiale assunta dalla Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (PACBI), braccio del movimento internazionale BDS. Secondo i quali il film “certamente viola” i criteri delle loro linee guida sull’anti-normalizzazione. Non trattandosi di una semplice recensione cinematografica bensì di un “sofisticato” giudizio morale il PACBI incorre in un grave errore di forma. Spesso ripetuto da una certa sinistra imbevuta di antisionismo. Affine, come modalità di approccio ideologico, a quello della destra nazionalista israeliana nei confronti dei palestinesi. Quando entrambi promuovono la negazione implicita ad un destino comune.

A difesa del collettivo di pacifisti israelopalestinesi che si autoracconta in video la Salaime schiera le testimonianze raccolte sul campo, nel lato palestinese. Jihad Al-Nawaja, capo del consiglio del villaggio di Susiya: “Per quanto mi riguarda, Yuval è molto più palestinese della maggior parte di questi commentatori online che lo diffamano, è palestinese fino al midollo. Yuval e decine di persone come lui hanno vissuto con noi, mangiato con noi, dormito nelle nostre case e affrontato soldati e coloni al nostro fianco per giorni. Invito tutti coloro che sono polemici a spegnere i condizionatori d’aria, salire in macchina e venire a vivere qui anche solo per una settimana. Allora vedremo se mi chiederanno ancora di boicottare il film”. Nidal Younis è il sindaco di Masafer Yatta: “Questo lungometraggio è un grido molto forte contro l’oppressione e l’ingiustizia. Nessun film può portare giustizia storica al nostro popolo, ma questo non vuole dire che non sia uno dei mezzi praticabili nella nostra lotta”. E anche l’opinione di un anonimo attivista palestinese: “C’è differenza tra un colono e un israeliano di sinistra, che si oppone all’occupazione. Semplicemente non posso metterli sullo stesso piano”.

Le considerazioni finali di Salaime: «In questo momento, bramiamo il bianco e il nero, il bene e il male. L‘immagine dei quattro registi insieme in piedi sul palco non calza con questo stereotipo, perché ci costringe a immaginare la possibilità di un futuro con gli israeliani, libero dall’occupazione, dalla violenza genocida e dalla supremazia ebraica. Ecco perché alcune persone sentono il bisogno di spogliare questa immagine di legittimità, minando le fondamenta di questa partnership, utilizzando gli strumenti più accessibili a loro disposizione: test di purezza morale, certificazioni BDS kosher, mettendo in dubbio le intenzioni degli individui, ponendo in discussione l’intelligenza delle persone coinvolte e cercando ovunque “finanziamenti sionisti” che presumibilmente hanno sostenuto il progetto, anche se, in questo caso, semplicemente non esistono.

È più chiaro che mai che la sanguinosa lotta di dominio e resistenza in cui siamo nati ha danneggiato la capacità di tutti noi – palestinesi ed ebrei, in Israele e all’estero – di empatizzare, provare compassione e identificarci gli uni con gli altri, ostacolando la nostra capacità di vedere gli alleati per quello che sono. In questo stato collettivo di menomazione, molti di noi non possono nemmeno festeggiare un documentario palestinese che ha vinto il premio più ambito nel genere». Spiega Kenan Malik dalle pagine di The Guardian: “In una terra condivisa che può sopravvivere solo se i diritti e le dignità sia degli ebrei che dei palestinesi sono riconosciuti, il significato di No Other Land non è solo quello di esporre la complessità della vita dei palestinesi, ma anche di fornire un piccolo assaggio di come la solidarietà possa essere forgiata”. No Other Land è una delle tante storie della routine di questo insensato conflitto. Non è un punto di vista ma un racconto di cronaca, che dovrebbe far riflettere.

In Cisgiordania 180 bambini palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano e dai coloni a partire dalla tragica data del 7 ottobre 2023 fino ad oggi. Vittime non numeri. Nomi. Come quello Ahmad Jazar, giovane palestinese che la sera del 19 gennaio scorso si trovava con i suoi amici nei pressi dell’asilo di Sebastia, piccola città palestinese a nord-ovest di Nablus. Quando i soldati israeliani, posizionati ad una distanza di circa 600 metri, hanno aperto il fuoco. Ahmad è stato colpito da un proiettile al petto, cadendo a terra e perdendo molto sangue. Trasportato all’ospedale universitario An-Najah di Nablus il quattordicenne è stato dichiarato morto. Ayed Abu Eqtaish direttore dell’ong Defence for Children International: “L’uccisione di Ahmad evidenzia la natura ordinaria della violenza che i bambini palestinesi devono affrontare, dove le incursioni militari israeliane spesso si intensificano con esiti fatali”. Ecco, nella distopia del nostro tempo No Other Land è un atto di denuncia coraggioso.

Alfredo De Girolamo Enrico Catassi

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