Firenze – Alla fine alcune considerazioni su “quel che resta (di buono e meno buono) del giorno” degli Oscar 2022 a un mese dall’evento, di cui si sono potuti sedimentare meglio gli effetti e i sensi complessivi. L’ assegnazione del premio più ambito (Oscar al miglior film in assoluto), e quello al miglior attore protagonista, come quello al non protagonista, sono risultati dominati da malintesa versione del politically correct che ha qui davvero raggiunto il livello del grottesco.
E’ chiaro che non si può certo fare le anime candide e pensare che anche i grandi premi umanistici di valenza planetaria (Oscar, Nobel per la letteratura e per la pace , et similia) soprattutto nell’ultimo cinquantennio non abbiano sempre più utilizzato un bilancino dove ha prevalso una sorta di manuale Cencelli universalizzato al massimo assieme a una pseudo-par condicio paralizzante. Dove l’abbattimento di ogni discriminazione e l’esaltazione della cultura (della settima arte, della pace e delle lettere), sono stati qui ridotti a puri simulacri vuoti e a sepolcri imbiancati.
Risultato: messa in minoranza di ogni criterio meritocratico e di semplice buon senso comune e deragliamento verso un conformismo ammantato di buone intenzioni (l’inclusione) e cattivi esempi. Se tutto questo era in atto già nelle precedenti edizioni dal dopoguerra ad oggi, mai però come ora l’assegnazione dei maggiori premi di fine marzo scorso era stata così palesemente appiattita su totem e tabù svuotati a cliché rimasticati.
Tra questi cattivi esempi si è assistito alla cerimonia di premiazione di Will Smith come miglior attore protagonista di questa edizione. I concorrenti erano Benedict Cumberbatch ( per la sua strepitosa interpretazione in Il potere del cane), Denzel Washington (convincentissimo primo Macbeth di pelle nera) , Javier Bardem (Being The Ricardos), Andrew Gardfield (Tick,tick..Boom!). Chiunque può verificare come l’interpretazione di Will Smith (peraltro buon attore in varie pellicole piuttosto commerciali-piacione dell’ultimo ventennio) non regga proprio il confronto con tutti e quattro candidati qui menzionati.
Will Smith è comunque passato alla storia del quasi centenario premio hollywoodiano, ma non per la sua parte in King Richard /Una famiglia vincente (la figura del padre pigmalione delle famose tenniste Venus e Serena Williams), ma per aver schiaffeggiato sonoramente il conduttore della serata, il comico Chris Rock, reo solo d’una innocua battuta sull’alopecia della moglie di W.S.
La faccenda si è complicata vieppiù col fatto che anche Chris Rock è nero, ha dissimulato il sonoro ceffone come una gag, e non battendo ciglio ha continuato a presentare l’evento con intatti sorriso e senso dell’ umorismo. Will Smith ha poi, solo dopo vari giorni fatto autocritica e scuse tardive a Rock, ma ciò non gli ha evitato poco dopo una condanna inevitabile politicamente corretta, da parte dell’Academy, che lo ha interdetto per 10 anni da tutti gli eventi e premi hollywoodiani, con annullamento di suoi futuri film, e la probabile crisi del suo matrimonio.
Ma l’Academy ha dovuto – sempre politically correct – conferirgli l’Oscar, giacché la busta col suo nome era stata già chiusa pubblicamente prima del fattaccio: questa istituzione, con oltre 6000 membri tra le celebrità e professionalità indiscusse del mondo cinematografico, è molto sensibile a difendere la sua immagine e comunque a introdurre minuziosamente le quote d’inclusione delle varie minoranze, per cui ora ogni produzione deve avere equamente la sua % di neri, altre etnie, Lgbt, portatori di handicap, quote rosa.
Poiché il rilevante Macbeth nero di Denzel Washington, era di un attore già celebre e pluripremiato, a questo giro per la quota “black” toccava a Smith, malgrado fosse chiaramente il meno bravo della cinquina, e in più in un film mediocre, agiografico, classico film americano di sport dove lo sport ( in questo caso il tennis) dovrebbe esserne il cuore, e invece non appare mai come tale, gonfio di una retorica generica e scontata dell’impegno e della tenacia in stile american dream. Siamo qui in pieno travisamento del Black Lives Matter (BLM).
Ma il grottesco è emerso in modo ancora più eclatante sotto un’altra categoria da proteggere , quella di portatori di handicap, e la categoria scelta è stata quella degli audiolesi, assegnando l’ Oscar più ambito ( miglior film in assoluto) a Coda.I segni del cuore di Sian Heder, buona regista politicamente corretta d’ una serie tv di successo (Orange is the New Black, sulle carcerate donne), e Talullah (una storia di emarginazione, devianza e maternità). Il che aumentava, oltre alle quote handicap, quelle rosa. Tra i 10 concorrenti al miglior film c’erano anche : Il potere del cane (J. Campion), Drive My Car( R.Hamaguchi), Licorice Pizza (P.T. Anderson), Belfast (K.Branagh), West Side story (S.Spielberg), Dune (D.Villeneuve). Coda si è aggiudicato anche l’Oscar al miglior attore non protagonista (Troy Kotsur, nel ruolo del padre). E anche qui già solo il paragone coi due candidati de Il potere del cane (Jesse Plemons e Kodi Smith McPhee), appare impietoso.
Coda , film mediocre di suo , è poi il remake americano di un’altra commedia di gran botteghino, il francese La Famiglia Belier. La motivazione ( e lo slogan) : un film che ti fa star bene: una famiglia di sordomuti autentici con padre , madre, figlio, mentre l’unica udente e favellante è la figlia che fa da interprete col mondo ai tre congiunti.
L’unica presenza che ha una certa traccia di senso e credito nella pellicola è Marlen Matlin ( qui nel ruolo della madre) che 36 anni prima, 1986, vinse L’Oscar per la miglior attrice protagonista in Figli di un dio minore: lì quattro decenni or sono dava vita intensa a un inedito personaggio di una giovane sordomuta discriminata anche socialmente (era un’addetta alle pulizie del teatro), che il recentemente scomparso e talentuoso William Hurt prima se ne occupava come persona, poi ne veniva affascinato, e poi se ne innamorava, interagendo per prove ed errori nel mondo senza suoni di Marlen; ma con forte sensibilità e facendole capire come era lui ad aver più bisogno di lei, e il finale non si scioglieva in una banale happy end, ma nell’inizio di un lungo confronto problematico con la reciproca complessa realtà e consapevolezza dei propri limiti.
Se poi si vuole ricercare un esempio ancora più nobile in cui l’Oscar ha saputo premiare il tema del rapporto col sordomutismo, basta rivedersi Anna dei miracoli , 1962, con la grandiosa prova dell’educatrice Anne Bancroft e della ragazzina da recuperare nel suo solipsismo emotivo, resa da una altrettanto straordinaria Patty Duke. Il regista poi era, tanto per dire, un certo Arthur Penn (Piccolo grande uomo, Billy the Kid, La caccia, Gangsters Story, Alice’s Restaurant).
Alla fine dietro questo premio a Coda c’è da considerare la potenza di fuoco della co-produzione di colossi tv via internet e streaming della Marvel e Disney, che con Netflix e Amazon dominano questo immenso mercato : Coda è stato il primo Oscar al miglior film non prodotto unicamente per il circuito cinematografico. Purtroppo registriamo così un altro segno preoccupante di alcuni ciechi meccanismi dove la speculazione perde di vista l’oggetto proprio della produzione: il cinema. Per il quale così si riduce sempre più l’esistenza effettiva come tale, e l’azione magica di questi fotogrammi in movimento da 24”/cad., che possono dispiegarsi e avere senso in modo unico , solo nel rito ipnotico d’un grande schermo illuminato in una sala buia, in una corrente di socialità ( il pubblico) e di esperienza polisensoriale e semi-onirica.
Detto questo sulle “miserie” (e omissioni varie) delle scelte dell’Academy negli Oscar 2022, passiamo al buono che i 6000 artisti e operatori di cinema hanno comunque fatto passare con il bilancino, ma ricomponendo alla fine un quadro accettabile nei valori del cinema di sicura qualità.
I quattro film che di certo non saranno dimenticati, sono per primo Il potere del cane (Oscar alla regia, ed è significativo che oltre a Coda sia accaduto solo altre 5 volte -in oltre cent’anni dell’evento – che assieme all’Oscar alla regia, per la stessa opera non sia stato assegnato anche l’Oscar al miglior film). Il secondo film memorabile è Drive My Car ( Oscar al film internazionale), il terzo è Belfast (Oscar per la sceneggiatura originale), mentre Licorice Pizza , di P.T. Anderson, quello con più freschezza e felicità cinematografica, si è dovuto accontentare di essere nella cinquina per il miglior film, regia, sceneggiatura originale, e aver ottenuto 4 Golden Globe ( i premi dei 90 critici cinematografici della stampa straniera ad Hollywood).
Il colossal Dune, che come tutti i colossal prevalgono per effetti speciali ed enormi mezzi anche di battage, e di lobbies, ha visto premiata , malgrado le 10 candidature complessive, e obtorto collo , unicamente la fotografia.
Don’t Look Up è stato ridimensionato a quello che in effetti è: il buon prodotto di un abile e poliedrico mestierante di cinema ‘demenziale’, Adam McKay ben capace di fare giochi piacevoli e con soggetti che vorrebbero echeggiare, mutatis mutandis , Il dott. Stranamore di quasi sessant’anni fa ( 1964): ma per sua sfortuna non ha il genio di Stanley Kubrick, né un soggetto evergreen formidabile e profetico (attualissimo in questi mesi di guerra tra Russia e Ucraina/ Usa, per procura ormai evidente), pari al best seller di Peter George, né attori della statura di Peter Sellers, George Scott, Sterling Hayden ( magari li valgono per le attrici di Dont’ Look Up , Meryl Streep e Cate Blanchett, ma per i maschietti anche no, please, con tutto il rispetto per il bravo Leo DiCaprio e il giovane cool, ma ancora inesperto, Timothée Chalamet).
Fuori dall’ Oscar per il miglior film internazionale è risultato E’ stata la mano di Dio di Sorrentino che molto sportivamente ha ammesso che Drive My Car era il film migliore, con un significato universale più esteso e complesso. Anche se l’Academy non ha osato, per il film del giapponese Hamaguchi, assegnare anche , o tout court, L’Oscar per il miglior film a un altro regista dell’estremo Oriente , come accaduto nel 2020 col Parasite del coreano Bong Joon-ho.
Allora la scelta era stata davvero coraggiosa, tesa ad esplorare e valorizzare un linguaggio cinematografico più innovativo, perturbante e scintillante ( anche nella sua stupefacente nero-sarcastica declinazione nel privato di due famiglie, della lotta di classe nel 2020 in una Corea ipertecnologica) , rispetto a Drive My Car che ha l’andamento rassicurante di un orizzonte vasto, ma familiarmente classico, come la Saab 900 turbo, su cui si snoda il “viaggio” on the road esteriore e interiore del film. Questo non toglie che E’ stata la mano di Dio sia stata stata finora l’opera più sincera e meno estetizzante del regista napoletano ( e , a ns parere, assieme a Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia e Youth , tutte e tre di un Sorrentino meno trionfante, ma di un’eleganza interiore più compiuta e non manierata). Ne parleremo ancora più a fondo, anche in occasione e in margine dell’ assegnazione 2022 dei David di Donatello , del 3 maggio.
Rimane il fatto che alcuni gioiellini qui già recensiti non siano entrati nella cinquina finale del miglior film straniero: Scompartimento 6 del finlandese Kuosmanen , e Stringimi forte del francese Amalric. Degli altri due notevoli non entrati in cinquina, per motivi politici interni, entrambi iraniani , parleremo successivamente dopo aver dato conto nei prossimi giorni di Licorice Pizza e Belfast , gli ultimi due film di autentico spessore candidati all’Oscar più ambito, che in comune hanno ciascuno un proprio emozionante amarcord semi-autobiografico: più lieve per il californiano Anderson ( primi anni ’70) più bruciante per l’irlandese dell’Ulster Kenneth Branagh ( dal 1969 in poi), che ha comunque vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.