Un saggio con un titolo intrigante, “Una straordinaria antipatica”, consente di andare in profondità nei “segreti” dell’arte di narrare di Oriana Fallaci. Un profilo “tecnico” su cui finora non si era posto il faro, subissato com’era dalla biografia da un lato e dall’altro dalle posizioni politiche della grande giornalista. A colmare il vuoto, ci ha pensato dunque questo saggio di Anna Gorini, giornalista senese, dottorato di ricerca in Letteratura contemporanea presso l’ateneo di Siena.
Cosa l’ha indotta a tornare sulla vicenda letteraria, giornalistica ed esistenziale della Fallaci?
“Il saggio “Una straordinaria antipatica” nasce da un lavoro di ricerca sui testi di Oriana Fallaci, che sono stati poco analizzati, mentre negli anni è stato lasciato molto spazio a riflessioni sulla vicenda biografica e sulle posizioni politiche espresse dall’autrice nell’ultimo periodo della sua vita. Mi sono accorta che in questo modo era stata messa in ombra la scrittura di Fallaci, che ha costruito uno stile giornalistico e narrativo personale e originale, riuscendo a eliminare le barriere tra questi due generi. Nel romanzo Fallaci ha portato il realismo della scrittura giornalistica, nei reportage e nelle interviste ha utilizzato forme narrative che ne hanno potenziato la capacità informativa e comunicativa. Per questo oggi un’intervista di Fallaci, pur scritta trenta o quaranta anni fa, è una narrazione viva che
espande i suoi significati su più livelli di lettura. Ma, al contempo, siamo di fronte a testi – possiamo dirlo – per lo più perfetti, nel senso che hanno una struttura di linguaggio e di narrazione minimamente ambigua: in questo senso rispettano un patto di lettura basato sulla chiarezza e sul contenuto informativo, e sono destinati a tutti i tipi di lettori. Per tutti questi motivi ho pensato che vi fosse spazio, anzi quasi necessità, di tornare sui testi di Fallaci, di analizzarli con un metodo di ricerca letteraria, per riportare in luce anche il percorso intellettuale di questa autrice”.
Quanto la Fallaci-mito si distanzia e falsa la figura dell’autore? E quanto quella della
giornalista tout court?
“Come ho detto, credo che la figura di Fallaci autrice debba essere riconosciuta proprio
attraverso l’attenta lettura e lo studio dei suoi testi, sia quelli scritti per la stampa sia i
romanzi. La mitizzazione di una biografia è un’operazione più semplice: si crea un simbolo e
poi si continua a lavorare su di esso. Tuttavia, la mitizzazione del personaggio Fallaci, a cui,
come ho scritto, ha contribuito anche lei stessa, è stato forse un esito inevitabile di fronte a
una vicenda professionale e umana così particolare. D’altro canto, il personaggio Fallaci ha
sicuramente aiutato l’autrice, la persona, in passaggi complicati, lungo percorsi difficili: è
stato come una sorta di corazza difensiva. La performatività è però un atteggiamento tipico
di molti autori che hanno avuto una vita particolarmente intensa. Penso a Hemingway, un
esempio per tutti. Vorrei dire però, riguardo a Fallaci, che molto spesso si sono ritenute
mitiche vicende reali, troppo complesse per essere credute fino in fondo. O troppo
scomode”.
Fallaci testimone della storia. Ha senso parlare di profilo professionale e profilo esistenziale nell’opera di Oriana Fallaci, come se fossero canali divisi? E ancora, sempre sulla stessa nota: è legittimo il dubbio che, parlando degli altri, l’autore non parli che sempre, esclusivamente di sè?
“L’immersione di sé nella narrazione ha costituito un dispositivo geniale e dirompente, che
credo Fallaci abbia prima adottato in modo naturale nella propria scrittura. Successivamente ne ha affinato la tecnica, anche a contatto con gli autori del new journalism. Il suo atteggiamento è sempre stato testimoniale, essendo lei giornalista. La descrizione e il racconto di qualsiasi fenomeno sono stati invece il suo obiettivo. Infine, divenire lei stessa protagonista della situazione è stato un modo per mettersi a fianco del lettore per aiutarlo a capire una determinata situazione. Per esempio, rispetto ai reportage sul programma spaziale dagli Stati Uniti, si può dire che Fallaci sia stata l’unica a non sottrarsi mai davanti a un’impresa di scrittura per la quale non esistevano neppure le parole per definire concetti, azioni, oggetti mai esistiti prima. La grandezza del suo racconto in quel caso sta nella sfida, vinta, di raccontare mettendosi all’interno del racconto, mentre, negli stessi anni, vari autori facevano proprio notare come filosoficamente esistesse un’impossibilità di narrare un’impresa che andava verso l’ignoto, perché poneva l’uomo di fronte a pensieri ed emozioni sconosciuti. Un autore potente come Norman Mailer, per esempio, si spinse a tematizzare questa impossibilità narrativa. Fallaci è stata criticata per la sua pervasività all’interno del suo testo: oggi credo che invece il lettore sia trascinato proprio da questa coerenza tra narrazione e vissuto”.
Della Fallaci in genere, quando si cerca di definirla, viene in mente il coraggio, la capacità
di far parlare i potenti e non, la sua capacità di racconto. Eppure rimane una figura
“antipatica”. Qual è la sua spiegazione?
“Vorrei innanzitutto dire che il titolo del mio saggio – un po’ ossimorico – si ispira alla
definizione che lei stessa ha dato di alcuni grandi personaggi che ha intervistato: antipatici
perché troppo celebri, troppo presenti nei media e tuttavia amati dal pubblico. L’antipatia
che Fallaci può comunicare credo sia in realtà una sorta di disagio di fronte a una personalità
che ci interpella sempre, perché non è mai scontata e perché porta riflessioni dirompenti,
sempre con un atteggiamento militante e non conciliante”.
Infine, una riflessione sul suo integrale ed assoluto antislamismo. Che cosa può aver
provocato una tale posizione, quasi ossessiva?
“Non ho studiato in particolare questo aspetto, ma ho potuto constatare che c’è stato un
percorso di maturazione, durato anni, durante la frequentazione di paesi del Medio Oriente
e del Nord Africa soprattutto. Se mi sento distante dalle sue posizioni estreme post 11
settembre, quando Fallaci ha escluso la possibilità di una conciliazione, credo anche che
occorra riconoscere a lei la capacità di aver messo l’opinione pubblica di fronte a temi su cui
non vi era stata riflessione e non vi era conoscenza. Ha “messo in agenda” una situazione
ormai esplosa, su cui non c’era stata abbastanza attenzione politica. Un po’ la stessa
situazione che si è creata ora tra Israele e Palestina: i grandi attori politici occidentali se ne
erano dimenticati. Ma ce ne accorgiamo solo ora. Vivere in una democrazia significa dare
libertà di parola. Fallaci ha potuto parlare. Ed è proprio la libertà la chiave del suo pensiero,
sviluppatosi in sessant’anni di militanza, che noi non possiamo cancellare”.