
“È una cosa seria la follia: è vita, tragedia, tensione. La malattia mentale invece è il vuoto, il ridicolo”. Inizia con queste parole di Franco Basaglia il libro di Peppe Dell’Acqua Non ho l’arma che uccide il leone. Un omaggio, ricordo inedito di colui che è stato amico e compagno di viaggio prima ancora che maestro. Un viaggio che inizia nei primi anni 70 e culmina con l’approvazione della legge 180, ovvero la fine dei manicomi, nel 1978. Peppe Dell’Acqua ha proseguito sulla strada tracciata da Basaglia a Trieste, dove è stato a lungo direttore del Dipartimento di salute mentale, e lo fa ancora oggi, dopo essere andato in pensione, attraverso libri, conferenze e interviste. Tanto è stato scritto a proposito della battaglia iniziata a Trieste trent’anni fa, ma il pensiero di Peppe Dell’Acqua si può facilmente riassumere in un concetto: i malati non sono cartelle cliniche, ma persone.
A Reggio c’è uno dei sei ospedali psichiatrici giudiziari ancora in funzione in Italia. Sono i vecchi manicomi criminali che in realtà hanno cambiato nome ma non forma, luoghi dimenticati da tutti, anche dalla legge che porta il nome illustre di Franco Basaglia. Un oblìo di cui la politica pare prendere coscienza nel 2010 quando la commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, tocca con mano una realtà drammatica. Il decreto “svuota-carceri” recentemente approvato promette una svolta: entro, e non oltre, il 31 marzo del prossimo anno tutti gli Ospedali psichiatrici giudiziari in Italia saranno chiusi.
Professor Dell’Acqua, pare che qualcuno si sia finalmente accorto dell’esistenza degli Opg.
Se ne sono accorti in ritardo. Gli opg così come sono oggi sono incostituzionali. La legge che prevede la misura di sicurezza in conseguenza di una presunta pericolosità sociale legata alla malattia mentale viene introdotta dal Codice Rocco, il codice penale fascista, e risale al 1930. La Costituzione confligge con la legge del 1930. Il problema è allora garantire il diritto di cura a persone che ne hanno bisogno esattamente come accade per esempio ad un detenuto affetto da diabete: il suo diritto alla cura viene prima di qualsiasi altra istanza che lo Stato può avanzare.
Come sono le condizioni di vita dei pazienti degli Opg?
Stiamo parlando di luoghi anacronistici, tenuti in piedi da un ordinamento arcaico. Luoghi dove i diritti sono negati, anche in misura maggiore rispetto al carcere. Gli internati non ci sono più, non esistono come persone, sono oggetti ridotti a nulla. Capita a volte che da oltre il muro giungano notizie di episodi di violenza commessa dagli internati. Non dobbiamo scordare che questi luoghi sono segnati dalla violenza, la violenza istituzionale, la violenza di una psichiatria e di una medicina tese a negare la tua esistenza come persona. Coloro ai quali viene negata l’esistenza di tanto in tanto non possono fare altro che utilizzare il corpo per fare capire che ci sono, perché il corpo è l’unico oggetto dell’attenzione di quella istituzione. O mi faccio del male o mi uccido o sono costretto ad atti di violenza nei confornti degli altri o, cosa pià terribile, mi rinchiudo all’interno della mia malattia, perché mi dà la capaictà di sopravvivere. In ogni caso per tutti l’internamento è una condanna a morte, un’ipoteca che queste persone si trovano sulla testa anche quando escono, a causa del pregiudizio e dello stigma.
Lei nega l’equazione malattia mentale-pericolosità sociale. Perché?
Perché è una correlazione che non è supportata da nessuna prova scientifica. E’ una conseguenza di quella cultura lombrosiana vecchia di oltre cent’anni. Negli Stati Uniti è stata condotta una ricerca su 100mila persone con disturbo mentale che sono state oggetto delle attenzioni delle forze dell’ordine. Queste persone sono state seguite per cinque anni ed è venuto fuori che la ragione dei loro problemi con la giustizia era da ricercare in causa perfettamente normali, comuni alle persone sane: difficoltà economiche, conflitti familiari, perdita del lavoro. Equiparare la patologia mentale alla pericolosità sociale è un grave errore che ha avuto e continua ad avere conseguenze pesantissime e rappresenta una distorsione della realtà.
Qual è allora la strada da seguire? Come trattare questi pazienti?
Chiudere gli Opg è un obiettivo molto importante, anche se io credo che di qui al 31 marzo si dirà che ciò non è possibile. Il problema è che questo decreto è un grosso pasticcio perché dice che le Regioni devono costruire piccoli opg. Si ripropone così in modo tragico la moltiplicazione dei manicomi giudiziari. Qualcuno pensa che se i cessi sono puliti, i problemi sono risolti. Le cose non stanno così. La strada è quella di fare in modo che i dipartimenti di salute mentale nel territorio di competenza mettano in campo programmi terapeutico-riabilitiativi individuali, così da conciliare il diritto di cura alle esigenze di sicurezza e vigilanza, come hanno stabilito anche due sentenze della Corte costituzionale del 2004 e del 2005. Oggi invece ci sono molti internati che restano negli Opg anche dopo la fine della pena perché mancano le strutture di accoglienza nel territorio di provenienza. Credo che questo sia un altro obbrobrio.
Giuseppe Manzotti