Finanziamento pubblico ai partiti: il taglio resta lettera morta

Abolizione del finanziamento ai partiti: il 26 luglio Pd e PdL annunciano battaglia. Temono di restare senza soldi

Nella calura estiva, in vista dell’ondata torrida che ci accompagnerà fino ad agosto, i partiti italiani sono pronti a infliggere un altro colpo di grazia alla credibilità del sistema: 20 anni dopo il referendum che abrogava il finanziamento pubblico, il disegno di legge annunciato da Enrico Letta in pompa magna nella seduta di insediamento rischia di restare lettera morta. Davanti a una raffica di 150 emendamenti tesi a svuotarlo dei suoi contenuti e a creare le premesse per il suo slittamento formale. In sostanza nessuno ne vuole sapere davvero di farne senza e trovare un’alternativa, magari faticosa, a una condizione che ha prodotto sperperi epocali e scandali plateali.

Mentre il Paese arranca sempre più sotto i colpi di una recessione infinita, col ministro Saccomanni che annuncia la fine del tunnel ma nessuna luce all’orizzonte (metafora per confermare il grave stato di crisi ad libitum), i tesorieri di Pd e PdL Misiani e Bianconi parlano senza mezzi termini di “democrazia a rischio” in caso di abolizione del finanziamento pubblico alle loro macchine organizzative da 190 dipendenti ciascuna. Anche questo un caso di larghe intese ante litteram.

montecitorio-copia-638x425Nel frattempo la spesa pubblica impiegata dai partiti è salita dal corrispettivo di 70 milioni di euro del 1994 a 291 del 2010, in corrispondenza di una crisi economica che toglieva soldi a imprese e famiglie, mentre le casse delle sigle parlamentari si riempivano a dismisura grazie anche a qualsiasi dovere dei partiti di mettere a bilancio gli introiti né di renderli tracciabili. Le conseguenze giudiziarie di queste prassi sono cronaca quotidiana.

Nel ’74 la legge Piccoli diede il via ai  fondi; nel ’93, incalzato da Tangentopoli, il popolo italiano abrogò quella legge che nello stesso anno divenne “contributo per le spese elettorali” (di fatto esautorando i cittadini della loro sovranità). Nel 2002 i fondi raddoppiano visto che ai partiti bastava l’1% dei voti, ovvero meno della soglia di sbarramento. Tra il 2012 e il 2013, sull’onda di uno sdegno senza precedenti, il governo Monti li dimezza mentre quello Letta ne annuncia la progressiva soppressione nell’arco di tre anni.

Ma i soldi che i partiti introitano, naturalmente per il “bene della democrazia” sono come l’araba fenice. E noi sappiamo che quando c’è di mezzo il “bene comune”, non c’è riforma che tenga. Né tantomeno volontà popolare

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