Omicidio di Viareggio: quando due mondi opposti entrano in collisione

Intervista alla sociologa Emma Viviani presidente di Araba Fenice

Al pari di quanto ormai è diventato uso comune – ovvero commentare ferocemente ogni evento accada, senza averne adeguate competenze – anche la vicenda accaduta a Viareggio lo scorso 10 settembre ha sollevato un vortice di accuse. Non ci sono giustificazioni, né all’uno né all’altro atteggiamento, e mantenendo il rispetto a quell’etica che noi giornalisti dobbiamo garantire con il rispetto di un codice deontologico in cui ci riconosciamo, è necessario elevare lo standard della discussione oltre la mischia del caos mediatico, da cui può solo generarsi altro caos.

Per farlo, partiamo proprio dalla stessa città in cui si è consumato l’omicidio di Nourdine Naziki – conosciuto come Said – schiacciato contro una vetrina dall’auto di colei che aveva prima scippato. A Viareggio esiste una realtà virtuosa di inclusione: la sociologa Emma Viviani, da anni impegnata nella progettazione sociale e di rigenerazione urbana, presidente de L’Araba Fenice, ha dimostrato che una direzione diversa, inclusiva e rispettosa in primis del valore “umano”, è possibile.

Per questo ci siamo rivolti a lei – nella vita della comunità viareggina da anni lavora per dare soluzione al disagio – allo scopo di comprendere meglio l’accaduto, secondo una panoramica quanto più possibile completa: quali sono le aspettative di una persona immigrata, quali le sue condizioni di vita, quali le possibilità di integrazione e, infine, se e come si possono comprendere – senza giustificarle – le azioni dei cittadini esasperati dalla violenza.

Dottoressa Viviani, comincerei col chiederle di definire brevemente cosa è L’Araba Fenice, e cosa significa per la comunità viareggina.

L’Araba Fenice è una realtà tanto semplice quanto complessa: semplice, perché vuole prendersi cura della persona che soffre un qualunque disagio, porgendole la mano con naturalezza. Complessa proprio perché si rivolge al “disagio”, avendo per questo volti molteplici. L’Associazione è nata nel 2005 all’interno del servizio per le tossicodipendenze Ser.t di Viareggio, dove lavoravo e dove decisi di “rompere gli schemi” della palese carenza istituzionale, sia da parte del settore sanitario che da quello sociale, nel dare risposte a persone in condizioni disagiate, molte delle quali provenivano dalla periferia di Viareggio: figli di immigrati dal sud d’Italia, o provenienti dal Nord Africa non integrati nel tessuto sociale urbano, che necessitavano di un approccio meno istituzionale e più umano. Capii subito che bisognava intervenire, restituendo dignità al luogo oltre che alle persone. Erano uomini e donne fortemente marginalizzati ed esclusi dal sistema sociale, spesso con problematiche che si sommavano alla droga: carcere e miserie forti, incompresi che si sentivano rifiuti dimentichi loro stessi di essere “persone” appartenenti alla razza umana.

L’Associazione è nata da questa realtà, dando vita a un gruppo di auto-mutuo aiuto che da subito ebbe grandi adesioni: la prassi era rovesciata, e come l’uccello mitologico dimostrava che anche le persone possono risorgere dalle loro sciagure. L’associazione divenne uno spazio degli utenti per ripensare il servizio, attivare nuove dinamiche, e sempre più persone aderivano con lo spirito di ricostruire se stesse, dimostrando intelligenza e profondo senso di solidarietà e creatività in cui diventare protagonisti della propria vita, insieme ai tanti che ne compresero la portata e la sostennero con la loro collaborazione: docenti universitari con cui lavoravo, personaggi del mondo dello sport e dello spettacolo contribuirono a creare un nuovo modello culturale per il reinserimento sociale e per l’integrazione.

E’ per questo esempio virtuoso di inclusione, che abbiamo scelto di rivolgerci a lei per avere un’opinione obiettiva sull’episodio che ha avuto come protagonisti Cinzia Del Pino e Nourdine Naziki: qual è la chiave di lettura che ne dà lei, sociologa che da anni segue il disagio degli esclusi?

I fatti di cronaca recenti ancora una volta ci pongono interrogativi riguardo al nostro modo di vivere, e sulla percezione di una mancanza profonda di valori umani. Quanto avvenuto a Viareggio, il gesto atroce di una nota imprenditrice, ci sconcerta perché mostra una visione di delirio e sconforto talmente profonda da sfociare in un omicidio. Il fatto si è rivelato grave, e questa volta lo scippatore ha avuto la peggio andando incontro a una morte violenta per mano proprio della sua “vittima”. Una crudeltà mossa dalla donna alla quale non siamo abituati, una regolazione di conti stile “western”. Questo episodio evidenzia due mondi a confronto: quello della classe agiata, della società “perbene” viareggina, e l’altro dei nullatenenti e senza tetto. Due universi che si rincorrono in un susseguirsi continuo di forme e stili di vita diversi: vite integrate e degne di essere vissute, altre criminose e disordinate, impossibili da collocare nel tessuto urbano. Vite marginali che in una scala di valori sembrano valere nulla.

Di fronte a tale episodio mi viene da fare una considerazione globale e sistemica in relazione al potere, alla ricchezza, al valore dato ai social che sono in grado di plasmare la mente degli individui, annientando la percezione delle conseguenze sociali e culturali. Con i dati alla mano possiamo dire che il 10% più ricco della popolazione mondiale detiene l’85% della ricchezza totale; una economia che cresce a dismisura per alcuni a scapito di miseria e povertà per altri. La conseguenza è uno statuto sociale, un modo di essere della società, dove la disuguaglianza rende dominanti i processi di emarginazione e di esclusione. «Quando il “buio” comincia a scavare nella tua mente il suo dominio, il tuo cervello entra nell’abisso della follia. È il crollo della cultura, il “proprio” dell’uomo, che perde le sue radici e le sue sinapsi. Un tessuto di senso indispensabile alla vita degli umani si lacera e viene meno nella sua capacità di resistenza e di produrre sopravvivenza» (S. D’Alto, prefazione in “Energie ribelli”, ETS, Pisa, 2015). Credo fortemente che questi processi causati dalla mancanza di fiducia nella vita, di obiettivi da raggiungere, possano esplodere all’esterno in atti violenti. Dobbiamo tener conto che gli attori in gioco siamo pure noi, non appartenenti alla marginalità sociale, ma sicuramente facenti parte di un sistema anche mediatico che disorienta e confonde e che può spingerci alla “follia”.

In questa sorta di legge del taglione, come vede l’appello sull’emittente marocchina Chouf Tv,delle sorelle di Said che chiedono giustizia per il fratello “ucciso come un animale”, e indignate perché alla Del Pino sono stati dati solo i domiciliari: è ulteriore occasione per esasperare – su entrambi i “fronti” – i toni della polemica e, di conseguenza, delle possibili reazioni?

La famiglia di Nardine esige giustizia, e vi è una forte indignazione da parte di tutto il mondo arabo: non può essere diversamente. Le posizioni prese dalla giustizia possono essere insoddisfacenti, ma dobbiamo rispettare il lavoro di chi applica la legge. D’altra parte, il gesto della donna omicida ha dato il via a un seguito di commenti sui social che dimostrano adesione e solidarietà verso la stessa, e insensibilità verso la morte dell’uomo, una nullità non degna di vivere. Siamo “al fronte” in una guerra di posizioni che ci impone di osservare il fatto analizzando non solo nel contenuto bensì anche nel contesto sociale di una città turistica e benestante, con un passato di belle époque testimoniato dai prestigiosi palazzi stile liberty della passeggiata del lungo mare e dall’art nouveau, residuo fantasma della società borghese di allora. Alla luce di questo episodio, Viareggio è teatro di discordie e desideri di rivendicazione da ambedue le parti, vissute dallo stesso cittadino – il viareggino – da estraneo non più identificato nella sua città. La colpa di questo, per molti, è da ricercarsi nello straniero, in colui che la insudicia e la degrada con gesti criminosi e irrispettosi. La soluzione è ovvia: fuori lo straniero! Questa posizione – peraltro ormai condivisa in Europa e non solo – non ci spaventa: a livello mondiale le città stanno vivendo uno stato di smarrimento a causa della diversità portata dall’immigrazione, che ha disorientato e ha allontanato il cittadino dalla libertà di vivere i propri spazi urbani con senso di appartenenza storica e sociale.

È doveroso quindi gettare uno sguardo critico sulla situazione attuale di città e uscire dai localismi e luoghi comuni, ricercando invece ampie vedute di costruzione di una città che sia di tutti. Devono essere osservate le criticità e non avere paura di affrontare il conflitto. Dal mio punto di vista professionale, dobbiamo considerare che il concetto di “ordine” all’interno di un tessuto urbano si accompagna sempre a quello di “disordine”, e ambedue sono espressioni della realtà cittadina.

Questo per dire che dobbiamo tener conto delle disconnessioni e lavorare su queste per evitare la follia della “individualità solitaria” che spesso è legata a quegli spazi della città non identificati, privi di senso e che nella accezione di “non luoghi” di Marc Augé rappresentano le zone d’ombra della città in cui si possono innescare meccanismi malavitosi e criminosi. Approfondire, indagare, analizzare queste parti del tessuto cittadino ci può aiutare a considerare il mondo di viventi che resta sommerso, sconnesso e non trova vie di comunicazione e di relazione con le altre parti della città.

Emma Viviani è sociologa dirigente del dipartimento toscano ANS-Associazione Nazionali Sociologi, da anni impegnata nella progettazione sociale e di rigenerazione urbana, tra cui quello del parco L’Araba Fenice a Viareggio, nel 2005, naturale conseguenza del lavoro iniziato alla fine degli anni ‘90, quando Emma Viviani era all’interno di un servizio per le tossicodipendenze, a contatto con il mondo della marginalità sociale, che l’ha avviata a metodologie sperimentali sull’auto progettazione dello spazio in luoghi di periferia, costituendo gruppi di auto-mutuo aiuto e laboratori con docenti e studenti dell’Università di Pisa.

L’Araba Fenice OdV dal 2005 continua con successo a sperimentare e mettere in pratica l’inclusione è partecipazione: Emma Viviani ne è presidente con lo spin-off Energie e risorse Coop. Sociale per collegare il disagio sociale e la realtà carceraria al mondo dell’impresa e della nautica viareggina, per offrire stimoli formativi nei giovani e orientamenti lavorativi. È autrice di parecchi libri: Laurea Honoris causa (Ibiskos Ulivieri, Empoli, 2008), Una tribù all’ombra delle foglie di coca. Per una nuova cultura del territorio (ETS, Pisa, 2010), Energie ribelli. Per una sociologia del cittadino (ETS, Pisa, 2015). È coautrice in Il parco sociale la Fenice a Viareggio (G. Michelucci, Firenze, 2008) e La povertà educativa (Pistoia 2023), autrice di innumerevoli scritti su riviste e quaderni di sociologia. È stata membro della Commissione Nazionale Governance e diritto del cittadino dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, collaborando attivamente alla BISP (Biennale dello Spazio Pubblico) a Roma.

In foto Emma Viviani

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