Firenze – Olio di palma al bando, la ricaduta sul burro provoca da un lato il rischio “carestia” a livello internazionale, dall’altra il “quasi raddoppio” delle quotazioni, almeno in Italia. La notizia emerge in occasione della giornata Mondiale del latte del 1° giugno, istituita dalla Fao nel 2001 che segna a livello planetario l’importante ritorno sulle tavole del primo alimento dell’uomo, ed è la Coldiretti a darla. L’impennata dei consumi che ha seguito il “bando” dell’olio di palma rischia infatti di mettere in crisi le forniture delle industrie dolciarie.
“Gli effetti – sottolinea la Coldiretti – si fanno sentire anche a livello nazionale dove un numero crescente di imprese ha fatto la scelta “olio di palma free”. Le quotazioni del burro alla produzione in Italia a maggio sono quasi raddoppiate con un aumento di circa il 90% rispetto allo stesso periodo del 2016 alla Borsa di Lodi dove anche il latte spot ha superato i 41 centesimi al litro contro i 37 centesimi di appena tre mesi fa, secondo le rilevazioni della Coldiretti. Un riposizionamento importante che avviene a poco più di un mese dall’entrata in vigore il 19 aprile 2017 della legge che obbliga ad indicare in etichetta l’origine per tutti i prodotti lattiero caseari fortemente voluta dalla Coldiretti, che consente di fare scelte consapevoli in un mercato invaso di prodotti stranieri spacciati come italiani”.
E’ sempre da Coldiretti che giungono anche i dati del fenomeno: le importazioni di olio di palma per uso alimentare, si legge nella nota, sono diminuite in Italia del 41% nei primi due mesi del 2017 con sei italiani su dieci che evitano di acquistare prodotti alimentari che contengono olio di palma, a conferma della diffidenza che sta portando un numero crescente di imprese ad escluderlo dalle proprie ricette, secondo elaborazioni Coldiretti su dati Eurispes.
“Le importazioni di olio di palma ad uso alimentare in Italia – continua la Coldiretti – hanno invertito la rotta dopo essere più che raddoppiate negli ultimi 20 anni raggiungendo nel 2016 circa 500 milioni di chili. Uno sviluppo enorme nonostante che alle perplessità sugli effetti sulla salute si siano aggiunte le preoccupazioni sull’impatto ambientale che – precisa la Coldiretti – sta portando al disboscamento di vaste foreste, senza dimenticare l’inquinamento provocato dal trasporto a migliaia di chilometri di distanza dal luogo di produzione e, naturalmente, le condizioni di sfruttamento del lavoro delle popolazioni locali private di qualsiasi diritto”.
Lo stesso panorama si registra anche a livello internazionale, dove i consumi di burro sono cresciuti del 7% negli Stati Uniti, del 5% in Argentina e del 4% in Asia come in Australia nel primo trimestre del 2017 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, secondo l’analisi della Coldiretti su dati Clal.
“Il cambiamento – sottolinea ancora la Coldiretti – ha coinvolto anche gli altri prodotti a base di latte e rende ancor più necessario per l’Italia valorizzare e sostenere il proprio patrimonio lattiero caseario dopo che negli ultimi dieci anni si è praticamente dimezzato il numero di stalle presenti, tanto da aver raggiunto il minimo storico di 30mila allevamenti, rispetto ai 60mila attivi nel 2005. Un fenomeno causato dal crollo del prezzo pagato agli allevatori che è sceso per lungo tempo addirittura al di sotto dei costi di alimentazione del bestiame”.
Situazione insostenibile, che richiede una “decisa inversione di tendenza”. A rischio ci sono “i 120mila posti di lavoro nell’attività di allevamento da latte che generano lungo la filiera un fatturato di 28 miliardi, la voce più importante dell’agroalimentare italiano dal punto di vista economico ma anche dal punto di vista dell’immagine del Made in Italy”
Tanto per dare un’idea, ecco la situazione italiana, come ricorda l’associazione dei coltivatori: 488 formaggi tradizionali censiti dalle Regioni, 49 a denominazione di origine protetta (Dop) riconosciuti dall’Unione Europea, a cui è destinato circa la metà del latte consegnato dagli allevamenti italiani.
“Ma la chiusura di una stalla – conclude la Coldiretti – non significa solo perdita di lavoro e di reddito, ma anche un danno ambientale con quasi la metà degli allevamenti italiani che si trova in zone montane e svantaggiate e svolge un ruolo insostituibile di presidio del territorio dove la manutenzione è assicurata proprio dal lavoro silenzioso di pulizia e di compattamento dei suoli effettuato dagli animali”.