Firenze – L’Italia è il fanalino di coda dei Paesi europei per l’occupazione, e tutti i Governi, tutti i partiti si “accaniscono” con proprie ricette sul mercato del lavoro. Verrà reintrodotto l’articolo 18? Sparirà la Fornero per sempre? Il jobs act sarà fatto a brandelli? E le politiche attive che fine faranno? Il fatto è che l’occupazione non si crea con interventi continui e disordinati sul mercato del lavoro, ma con politiche industriali vere. Ne è convinta Franca Alacevich, docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Firenze, nonché membro del Consiglio superiore di Bankitalia a Roma.
Sul mercato del lavoro si è giocato “l’accanimento” riformista di tutti gli ultimi governi, con il risultato che oggi in un’azienda coesistono tre tipi di normative per i lavoratori: il “vecchio” articolo 18, la riforma Fornero, il Jobs act. Lei che ne pensa?
Effettivamente questo è un punto cruciale. Il mercato del lavoro è un’istituzione sociale, la normativa deve essere stabile, e se varia in continuazione è un problema sia per i lavoratori che per le aziende. In primo luogo perché le regole che mutano non aiutano le imprese a esprimere pienamente la propria strategia occupazionale. E poi una legislazione che varia non è valutabile, perché gli effetti in questo campo si possono osservare sul medio-lungo periodo. Le faccio un esempio: la legge Fornero tutelava molto di più gli “outsider” del mondo del lavoro, rispetto agli “insider”. Ma non potremo mai dire se era una buona legge perché non ha avuto tempo di mostrare i propri effetti. Sembra proprio che la politica non lo capisca…
Tito Boeri e Pietro Garibaldi, in un Report per l’Inps, hanno messo sotto osservazione gli effetti del Jobs act. Fra il 2015 e il 2017 le imprese hanno aumentato le assunzioni a tempo determinato del 50% e parallelamente sono aumentati del 50% i licenziamenti. Morale, avevano ragione sia Matteo Renzi che Susanna Camusso?
Ho lavorato molto su questi temi. Ci sono alcuni aspetti del Jobs act estremamente pericolosi. Anzitutto il contratto a tutele crescenti non è a tempo indeterminato e dunque non ha prospettive di lungo periodo davanti a sé. E man mano che gli incentivi sono venuti meno, anche le assunzioni hanno cominciato a calare. In sostanza il Jobs act ha creato maggiore discrezionalità sia dal lato delle assunzioni che dei licenziamenti. Per farle un esempio, nel passato ho avuto numerose notizie di donne costrette a firmare dimissioni in bianco in caso di gravidanza. Ebbene, oggi questo fenomeno sembra sparito. Ma non perché i diritti vengano rispettati, al contrario. Perché l’imprenditore può licenziare, senza tante scuse.
La crisi di questi ultimi anni ha indebolito il mercato del lavoro, e la normativa purtroppo sembra aver accentuato la debolezza…
Purtroppo assistiamo a due processi convergenti. Una “individualizzazione” dei diritti, ossia in un contenzioso che il lavoratore può far valere solo in sede giuridica, in Tribunale. E una tendenza alla “decollettivizzazione”, brutto termine che indica il tentativo di far sparire la gestione collettiva del lavoro e dei conflitti sul lavoro. Da tempo si spara contro i cosiddetti corpi intermedi, sindacati, organizzazioni di categoria. Lo hanno fatto i governi di centro destra e anche, ahimé, quelli di centro sinistra. Ma senza i corpi intermedi non si governano con efficacia i processi.
C’è da dire che anche i Sindacati da tempo non riescono a interpretare e rappresentare i cambiamenti del mondo del lavoro
Sì, ma dovrebbe essere nell’interesse di tutti il fatto di promuovere e facilitare una maggiore capacità di rappresentanza. Anche con una legislazione di sostegno alla gestione collettiva delle tutele, con delega di alcune funzioni alle organizzazioni collettive che verrebbero così rafforzate.
In ambito politico oggi si promette di tutto: reintroduzione articolo 18, abolizione legge Fornero, reddito di cittadinanza mischiato con politiche attive sul lavoro. Lei che ne pensa?
Il futuro è davvero di un’incertezza assoluta. Sarebbero necessari dei riadeguamenti costanti, più che continui cambiamenti, come dicevo all’inizio. “Levo questa legge, ne faccio un’altra”: questa è una logica che risponde a una domanda politica, non a un’esigenza del mercato del lavoro. Bisogna cercare di capire i nodi che sono sorti con i passati interventi normativi e cercare di risolverli. Il lavoro non si crea con le leggi sul mercato del lavoro, si crea con politiche industriali, di sostegno all’innovazione, a ricerca e sviluppo.
Cosa dovrebbe fare un ipotetico Ministro del Lavoro del nuovo Governo, secondo lei?
In primo luogo dovrebbe intervenire sul costo del lavoro, il cosiddetto “cuneo fiscale”, che è uno dei grandi problemi del nostro Paese. Poi dedicare risorse vere a Ricerca e sviluppo. Qui convergono anche le analisi di Bankitalia. L’Italia ha lasciato perdere questi investimenti sia in ambito pubblico che privato. Le risorse? Si potrebbero usare meglio i Fondi europei, che attualmente sono usati poco e male. E poi, è vero, le risorse sono scarse, ma si possono fare tante cose mettendo in relazione soggetti, costruire forme di tutoraggio di imprese maggiori su altre di minori dimensioni ma con forte potenziale. Insomma, dovremmo imparare a pensare cose che nessuno si mette a produrre, ma servono a creare interconnessioni, reti e un potenziale produttivo più evoluto.
Foto: Franca Alacevich