Occidente a un bivio, in gioco i valori di libertà e di eguaglianza

I suoi valori non possono essere imposti ma possono espandersi

Pubblichiamo il saggio di Claudia Mancina, già docente di Etica alla Sapienza di Roma tratto dal numero 545 della rivista Testimonianze dal titolo “Dove va la “Terra del Tramonto”, Riflessioni sull’Occidente”.

Fra Hegel e Spengler: l’autocoscienza dell’Occidente

Il sole sorge ad Oriente, e così la storia del mondo, che va anch’essa, come il sole, da Oriente a Occidente. Ma qui si ferma. Il suo movimento non è ciclico, come quello astronomico, ma lineare. «L’Europa è infatti assolutamente la fine della storia del mondo, così come l’Asia ne è il principio. (…) infatti, benché la terra abbia forma di sfera, tuttavia, la storia non compie un cerchio intorno ad essa». Così Hegel.

Dunque, l’Europa – con gli Stati Uniti che sono una sua propaggine – è la fine della storia: fine nel senso di tappa conclusiva. L’Occidente non è un concetto astronomico o geografico, e neanche solo storico, ma filosofico-storico. In questi termini, nei primi decenni dell’Ottocento, un grande filosofo poteva affermare l’autocomprensione della superiorità occidentale sulle altre civiltà.

Poco meno di un secolo dopo, Spengler negava precisamente il punto fondamentale di quel concetto di Occidente: l’idea che la storia sia una, universale, e quindi compia un cammino lineare, da un principio a una fine. Per Spengler la storia non è universale e quindi non c’è una sola civiltà (Kultur), ma tante e diverse, ciascuna delle quali fa il suo percorso, muovendosi verso la sua fine (questa volta, nel senso di declino e di morte). L’Occidente è alla fine di questo percorso, è nella fase declinante, segnata dalla civilizzazione (Zivilisation), dominata dalla tecnica, dal denaro, dalle masse. Nel Novecento l’autocoscienza dell’Occidente ha oscillato tra queste due visioni, tra il trionfalismo e il catastrofismo. Tra l’idea del dominio come missione e il peso del senso di colpa per misfatti veri o presunti.

Una civiltà che è diventata «planetaria»

Eppure, proprio nel Novecento, la civiltà occidentale, dopo avere sconfitto i suoi demoni in due durissime guerre, ha definito i suoi caratteri fondamentali, paradossalmente aiutata in questo dalla sfida posta da una idea di società alternativa, quella comunista.

Negli anni di questa contrapposizione, l’Occidente si è definito come mondo della eguale libertà, della ricchezza di opportunità per tutti gli esseri umani, di uno sviluppo tecnologico che porta benessere e emancipazione. Il fallimento dell’esperimento comunista ha infatti coinvolto gli aspetti spirituali così come quelli economici del progetto, che si è rivelato incapace di dare benessere e libertà. La civiltà occidentale è quindi apparsa vincente e, di nuovo, come la fine della storia nel senso hegeliano. Nel contempo, il suo centro si è spostato ancora più a Occidente, negli Stati Uniti, divenuti ormai guida e garanti di pace per la stessa Europa, devastata dalla sua lunga guerra civile.

Il nuovo secolo, aperto dall’attacco alle torri gemelle di New York, ha visto disegnarsi un quadro diverso. L’Islam radicale si è posto come nuovo e più sanguinario nemico dell’Occidente. Contemporaneamente alla guerra asimmetrica con esso, si è sviluppata una nuova tecnologia e un nuovo capitalismo. Come risultato, la civiltà occidentale si è ulteriormente espansa, sino a diventare planetaria. Oggi lo schieramento occidentale, con le sue caratteristiche economiche e politiche, comprende paesi geograficamente e culturalmente lontani come il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e la Nuova Zelanda. Altri paesi sono legati all’Occidente da mille legami.  Questa straordinaria espansione, che non ha eguali nella storia dell’umanità, e che chiamiamo globalizzazione, si è però sviluppata sul piano economico-finanziario e tecnologico e molto meno sul piano politico. Non ha portato a una vera unificazione del pianeta, tanto meno a una sua pacificazione.

Ciò che continuiamo a chiamare Occidente si trova oggi di fronte a una nuova sfida: quella posta dalle autocrazie. La Cina, la Corea del Nord, la Russia. La Russia è per ora la più importante, perché la Cina non ha ancora mostrato di ambire a un dominio politico-militare; e perché la Russia è alle soglie dell’Europa, ne costituisce il versante orientale. Sarebbe un errore pensare che si stia riproducendo l’assetto della guerra fredda. In quel caso c’era, tra i due soggetti del confronto, una sottile anche se spesso non vista affinità. Il comunismo era sì un progetto di società radicalmente altra rispetto al capitalismo. Ma nasceva dal cuore delle radici universalistiche e cristiano-illuministiche, così come il pensiero di Marx nasceva dalla filosofia e dall’economia europee. Il confronto era sulle categorie fondanti del pensiero occidentale: libertà e eguaglianza, che si voleva fossero meglio realizzate nella società socialista. Oggi invece le autocrazie sono portatrici di un progetto di civiltà che non ha più niente a che fare con l’universalismo e con l’illuminismo, nemmeno con il cristianesimo nella sua versione occidentale. Si tratta di un’alternativa globale, e così dobbiamo vederla.

La «degenerazione occidentale» secondo Putin

L’invasione dell’Ucraina ha reso evidente questa sfida. Ogni guerra ha motivi materiali, economici o territoriali. Tuttavia, ogni guerra è anche, seguendo von Clausewitz, un fatto morale o spirituale. Se non teniamo conto di questo aspetto non siamo in grado di spiegarci un atto che appare folle e perfino autolesionista. «l’Ucraina – dice Putin – non è solo un Paese vicino per noi. È parte integrante della nostra storia, della nostra cultura e del nostro spazio spirituale». Lo spazio spirituale di cui si parla qui è il russkij mir, il mondo russo. Un mondo che è stato distrutto dalla rivoluzione bolscevica. Nonostante certi aspetti rituali e simbolici, Putin non è in continuità con l’Unione sovietica. Al contrario, pensa che l’Ucraina, che faceva parte della Russia anche prima di essere riunita allo Stato russo nel XVII secolo, sia stata una invenzione di Lenin, nell’ambito della sua politica della autodeterminazione dei popoli.

Secondo Putin questa politica ha fomentato il nazionalismo in tutti i territori dell’ex-Impero zarista, portando a quella che è stata per lui la più grande catastrofe della storia russa: «Il crollo del nostro Paese unito è stato causato da errori storici e strategici dei dirigenti bolscevichi, la direzione del Partito Comunista, fatti in diversi momenti nella costruzione dello Stato, nella politica economica e nazionale. Il crollo della Russia storica chiamata URSS è sulla loro coscienza». Emerge qui una idea generale sul mondo russo come una realtà culturale e spirituale che fonda lo Stato russo e che solo per una serie di decisioni sbagliate è stato frantumato. Putin  si ricollega direttamente alla Russia zarista, anche se non disprezza gli ampliamenti territoriali dell’URSS. In questo quadro, la mitizzazione della Grande guerra patriottica e della vittoria sul nazismo potrebbero apparire contraddittori, ma non lo sono: per Putin la Russia è sempre la Russia, che sia quella degli zar o quella sovietica. Del resto, fu Stalin ad adottare l’espressione «grande guerra patriottica» per ricollegarsi alla guerra antinapoleonica ed evocarne la vittoria.

Ma che cos’è il mondo russo? Come mai Putin, che all’inizio del suo potere era pronto a entrare in Europa e forse perfino nella Nato, è diventato un nemico dell’Occidente? Quello che sembra si possa dire con notevole grado di certezza è che interpreta il senso di umiliazione e il risentimento di un Paese enorme, che è stato per tre secoli tra le maggiori potenze globali, che è stato determinante (insieme agli americani) per sconfiggere il nazismo, e che poi è stato uno dei due Paesi egemoni a livello mondiale, ma oggi non riesce ad avere tra le nazioni un posto eminente. La Russia di oggi non è riuscita a recuperare né il ritardo economico e tecnologico, né quello politico. I confusi tentativi di instaurare un regime democratico dopo la fine dell’Unione sovietica sono naufragati, così come naufragarono nel 1917, dopo la fine dello zarismo. Probabilmente c’è stata anche una sottovalutazione, e una mancanza di solidarietà, da parte dell’Occidente.

Oggi la Federazione russa è un Paese fallito, in crisi di identità, che conosce una grande debolezza economica, una non secondaria opposizione interna, e di conseguenza vive nella paura del contagio democratico. Ispirandosi a pensatori come Aleksadr Dugin e Lev Gumilev, che si collegano al tradizionale filone slavofilo e alla francese nouvelle droite, Putin aderisce all’idea che il destino della Russia non sia in Europa, ma in Eurasia, un enorme continente del quale la Russia occuperebbe il centro, estendendo il suo dominio spirituale e politico dall’Atlantico al Pacifico. Come i suoi ispiratori, Putin è fortemente convinto – in ciò sostenuto dalla Chiesa ortodossa russa – che l’Occidente sia una civiltà degenere e in declino morale e spirituale. In sostanza, ciò che viene rifiutato è l’universalismo, che oggi si coniuga con la globalizzazione commerciale e finanziaria, ma che è alla radice dell’Occidente sin dalla Lettera ai Galati di Paolo: «(…) non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna». Una idea universalista e insieme individualista che ha impiegato un paio di millenni per diventare pratica di eguaglianza, di libertà, di diritti umani, ma che, almeno a partire dal Seicento, ha nutrito tutti i movimenti di emancipazione e di liberazione. Questa idea è rifiutata in nome della tradizione, della conservazione, dei diritti sovrastanti delle comunità. Così la «geopolitica del risentimento» di Putin si nutre della difesa della patria, della famiglia, della storia russa e del mondo russo, di fronte alla degenerazione occidentale. Le libertà personali, che sono la forza della civiltà occidentale, non hanno alcun valore in questo sistema ideologico.

La capacità di regolare il disaccordo

L’universalismo di cui abbiamo parlato ha un’espressione politico-istituzionale, che è la democrazia. La democrazia non è definibile soltanto come governo del popolo, o della maggioranza, realizzato attraverso il suffragio universale. Storicamente, in Occidente, si è specificata come democrazia liberale: due termini che non possono essere disgiunti. Ciò significa che le democrazie realmente esistenti possono essere molto diverse tra loro, ma condividono, oltre al governo del popolo, altri caratteri fondamentali: la rappresentanza, la separazione dei poteri, il governo della legge, le libertà personali, che, partite dalla libertà religiosa, nella storia si sono sempre più espanse; la accountability del governo; il controllo costituzionale, la molteplicità dei livelli di governo, da locale a nazionale.

Al di là delle questioni definitorie, è da sottolineare che la democrazia è per sua natura basata sul disaccordo: la sfida di una democrazia efficiente sta nel regolare il disaccordo, attraverso il gioco delle istituzioni e il dibattito pubblico. Un sistema fondato sul disaccordo evidentemente garantisce libertà e pluralismo, ma altrettanto evidentemente è un sistema instabile e complesso, con un processo decisionale spesso lento e complicato. In compenso nelle autocrazie il governo è raccolto nelle mani di un solo uomo e al più del suo gruppo ristretto; le libertà personali non esistono, e in particolare la libertà di opinione e di informazione viene duramente repressa; le elezioni, quando ci sono, vengono truccate. Forse questo sistema, indubbiamente più semplice, consente decisioni più rapide, ma è anche evidente, dall’esperienza passata e presente, che la mancanza di libertà e di snodi istituzionali porta molto facilmente a decisioni sbagliate, perché all’autocrate non arrivano le informazioni necessarie, o perché la sua sopravvivenza politica fa aggio su tutti gli altri fattori.

Dunque, abbiamo da una parte libertà e talvolta decisioni più lente; dall’altra assenza di libertà e decisioni spesso sbagliate. Aggiungiamo che le democrazie liberali hanno performances economiche molto migliori delle autocrazie (con l’eccezione della Cina, ma qui la storia è appena iniziata), grazie per l’appunto alla libertà e alla pluralità delle istituzioni, che favoriscono l’iniziativa individuale, il commercio e l’innovazione tecnologica. Non è un caso se tutte le rivoluzioni industriali, finora, sono nate in paesi liberali prima e poi liberaldemocratici.

Non possiamo tuttavia ignorare che ci sia una crisi delle democrazie. Oggi è molto rilevante la crisi americana e il fatto che nella stessa Unione europea alcuni paesi stiano evolvendo verso democrazie illiberali. Questi processi ci dicono che c’è una stanchezza della democrazia. Si tratta in gran parte degli effetti della globalizzazione. Con la globalizzazione, la politica nazionale, che è finora l’unica forma di democrazia, ha perso capacità di decisione, e dunque di protezione dei cittadini. Le decisioni sono spostate altrove, presso organismi transnazionali o presso grandi gruppi privati, anch’essi transnazionali. La politica nazionale viene così svuotata, e le promesse della democrazia appaiono illusorie a gran parte dell’opinione pubblica.

Riconoscere queste trasformazioni consente di capire lo sviluppo di movimenti nazionalpopulisti che possono avere manifestazioni molto diverse, lungo tutto lo spettro sinistra-destra. Se è così, è chiaro che si tratta di un passaggio epocale molto difficile, che non può essere governato soltanto con principi astratti come l’universalismo o il cosmopolitismo. La politica non è pura razionalità, ma si basa sulle emozioni, come ha sottolineato Martha Nussbaum. Come la paura, l’insicurezza, l’odio. Di queste emozioni bisogna tener conto. La globalizzazione non finirà, come si dice troppo spesso, ma dovrà essere ripensata, abbandonando una troppo facile versione cosmopolitica. Come ha sottolineato Rodrik già qualche anno fa, gli stati nazionali non sono scomparsi e non scompariranno, ma restano fondamentali anche per l’articolazione della globalizzazione: sia per la regolazione dei mercati, sia per rimediare alle conseguenze negative.

La forza della democrazia come «sistema imperfetto»

La crisi politica scuote dunque la democrazia in molti paesi, ma le previsioni catastrofiche sono perlomeno esagerate. La democrazia deve essere pensata come un sistema imperfetto ed esposto a crisi, per una ragione strutturale: è attraversata da una faglia interna, che periodicamente si palesa ed è la tendenza al populismo, inteso in senso proprio come rifiuto delle istituzioni rappresentative e sfiducia nelle élites, in particolare politiche. Una crisi di questo genere, anche molto più radicale, ebbe luogo in Europa tra le due guerre, dando origine ai totalitarismi. Dopo la Seconda Guerra la democrazia si è rinvigorita e ha conosciuto il suo periodo più felice.

Oggi indubbiamente nella ricorrente sconnessione tra élite e popolo c’è un fattore nuovo, che è dato dall’enorme sviluppo dei sistemi informativi e comunicativi, che hanno un effetto di disintermediazione, rendendo sempre più frammentata la società e più difficile individuare agenti collettivi come target dell’azione politica. A questo quadro va aggiunto un altro elemento, che è la tendenza dell’Occidente ad essere nemico di se stesso. Gli occidentali sembrano mossi da un odio dell’Occidente, del suo retaggio storico, che non ha pari tra i suoi stessi nemici. Basti pensare alla cancel culture, o ai danni che sta facendo la cultura woke, con vera e propria persecuzione di chi la pensa diversamente. Di fronte a questi fenomeni, viene veramente da pensare che le profezie sul declino dell’Occidente siano prossime ad avverarsi.

L’Occidente è dunque di fronte a un bivio della storia. Potrà cominciare davvero una rapida fine, vinto dall’apparente efficienza delle autocrazie e dai suoi nemici interni. Oppure, da tempo deposte le tentazioni coloniali e imperiali, potrà rafforzare la sua capacità di espansione sino a diventare veramente «mondo, come propone Aldo Schiavone.

Ma come diventare mondo? Qui entra in questione la capacità di radicare le forme politiche occidentali in altri contesti. Negli anni Novanta i neoconservatori americani immaginarono che fosse possibile, venuto meno l’antagonista della Guerra fredda, esportare la democrazia. Il progetto, com’è noto, non ha avuto molto successo. Dobbiamo arrivare alla conclusione che la democrazia non si esporta, il che non significa che non si espanda. Ma si espande soprattutto attraverso la desiderabilità del modo di vivere da essa assicurato. Questo ha un risvolto importante: bisogna capire che ogni Paese ha tradizioni storiche e culturali, vorrei dire un’identità spirituale che darà alla democrazia, se viene adottata, una curvatura particolare. Del resto anche tra le democrazie consolidate ci sono differenze significative.

Non possiamo sostenere la democrazia e l’Occidente se non teniamo conto di questo «diritto alla differenza» e ci lasciamo portare dall’arroganza di pensare che tutti debbano diventare come noi. I valori occidentali, quelli che vogliamo difendere, non possono essere imposti; devono essere lasciati crescere e svilupparsi come una pianta in un nuovo terreno. Questi valori sono universali, nel senso che sono pensati come validi per tutti; non certamente nel senso che possano essere imposti a tutti. Rispettare le diverse vie che la storia può prendere: è questo il modo di essere fedeli al legato occidentale, cioè all’universalismo della libertà e dell’eguaglianza di opportunità.

Claudia Mancina

Total
0
Condivisioni
Prec.
Il dono avvelenato di Cassandra, simbolo della libertà di parola

Il dono avvelenato di Cassandra, simbolo della libertà di parola

Firenze –  Ogni  libro di Cinzia Giorgio è subito un successo e anche il

Succ.
Il terremoto Harry: ora gli inglesi vorrebbero tornare in Europa

Il terremoto Harry: ora gli inglesi vorrebbero tornare in Europa

Sono convinti che il divorzio da Bruxelles non è stata un'ottima idea

You May Also Like
Total
0
Condividi