La morte del prof. Corrado Corghi mi addolora molto.
È stato un punto di riferimento di tanti giovani, non solo democristiani, negli anni difficili e intriganti del sessantotto italiano e mondiale. Il card. Pignedoli gli aveva affidato alcune missioni politico-umanitarie nell’America Latina di Che Guevara, Camillo Torres e altri rivoluzionari. Ma anche in Medio Oriente, in Siria e Libano in particolare.
Ha attraversato tutti gli anni sessanta con l’inquietudine e la passione di chi capiva che quella sarebbe stata un’epoca di un cambiamento molto forte. Mise in contatto moltissimi giovani italiani con il volto di una rivoluzione popolare, non ideologica, e, per quanto possibile, non violenta. Utopia politica: fu l’accusa fattagli in diversi ambienti conservatori e cosiddetti benpensanti.
Corghi era un politico “di minoranza” più che di opposizione, cioè testimone ostinato semplicemente di ciò che pensava.
Cattolico fervente, era stato presidente dell’Associazione nazionale dei maestri cattolici; docente alla Cattolica di Milano per qualche anno; dirigente provinciale, regionale e nazionale della Democrazia Cristiana, vicino ai “professorini” ,ma più a Fanfani che a Dossetti.
A Reggio Emilia va ricordato per gli anni in cui fu segretario provinciale della Dc. Oggi si direbbe “divisivo”, in effetti era semplicemente uomo che rifiutava la logica degli establischment. Nel 1956 organizzò una grande autocolonna (con auto, pullman e camion) per portare aiuti alla popolazione ungherese che stava subendo l’aggressione sovietica. Nel 1960 segretario regionale della Dc partecipò ai funerali dei morti del 7 luglio con (lo si seppe solo molto dopo) la copertura politica di autorevoli dirigenti nazionali del partito.
Ha pubblicato tre anni fa una corposa autobiografia-politica da cui emerge la sua orgogliosa coerenza politica, sempre dalla parte delle battaglie di cambiamento, al limite della rivoluzione.