Nuovo pubblico, nuova politica: la musica riprenda il suo posto nella cultura e nella formazione

Un’arte che comunica le più grandi ricchezze della sensibilità umana
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Foto di Patrick Hendry su Unsplash

Quanto è significativa la presenza delle musica d’arte oggi in Italia? Si dovrebbe dire che occupa una posizione assai defilata se si considera lo spazio che l’opinione pubblica e di conseguenza i media le danno, forse già un po’ meno nelle frequenze del pubblico agli spettacoli ad essa dedicati. Se poi si fa una più seria analisi di quante organizzazioni musicali sono presenti nel paese la situazione può anche sorprendere. Nonostante tutti i problemi che attraversano da tempo molti Enti musicali vi è, soprattutto nelle piccole realtà, una notevole vivacità e varietà di proposte, alcune di ottima qualità, altre meno, ma pur sempre segno di un dinamismo che dovrebbe essere più conosciuto.

Per comprendere le origini di questo fenomeno è necessario un esame di come sia cambiata la nostra società negli ultimi cinquanta anni.

Dalla fine della ricostruzione economica, sociale e culturale dell’Italia, che possiamo definire alla fine degli anni ’60, ad oggi la società italiana ha subito cambiamenti radicali che hanno fortemente influenzato gusti, modi di vivere, desideri della gente. Negli anni settanta, dopo la ripresa economica, ci fu un interesse per tutto ciò che poteva costituire una novità culturale. La popolazione finalmente si guardava intorno nel mondo senza più un senso di inferiorità economico e sociale. La cultura aiutò a fare da volano per questa nuova proiezione sociale: teatri, cinema, musica, letteratura, ma anche politica, scienza, insomma l’insieme del pensiero speculativo e intellettuale, indirizzarono, particolarmente nelle città, la popolazione verso una fruizione di ciò che prima era sconosciuto e lontano. Sono i “favolosi anni settanta” che per chi li ha vissuti restano un periodo indimenticabile.

Era il periodo in cui gli enti locali misero in atto in atto una politica anticlassista che voleva accrescere il godimento di qualunque esperienza culturale che si divulgò un po’ dappertutto. Si riempirono i centri storici con una continua e inedita contaminazione; si avviò il recupero di spazi culturali: i circhi, i teatri tenda, gli schermi nelle piazze, le cantine, i teatri underground, i cinema d’essai, i cineclub, le grandi iniziative estive come i concerti all’aperto. Tutto ciò movimentò la vita delle città, ma per contro dette anche la sensazione di una facilità di fruizione, l’illusione che si potesse godere di tutto senza la consapevolezza che i campi artistici hanno la necessità di un profondo lavoro. Eppure da allora e per merito di questo clima aumentarono le proposte di ogni genere. La divulgazione non fu solo appannaggio degli enti preposti o delle paludate organizzazioni storiche, ma nacquero piccole organizzazioni volontarie, festival in paesi e cittadine periferiche, complessi autogestiti, stagioni di concerti in ogni luogo, corsi e masterclass nei periodi estivi, insomma un pullulare di attività che invase l’intero territorio nazionale in gran parte sostenute da enti locali ma anche dal Ministero del Turismo e Spettacolo, come allora si chiamava, e che colmò, almeno nominalmente il gap con i paesi musicalmente più evoluti del nord Europa.

Ma il pubblico, dopo l’ iniziale fervore che durò almeno fino alla metà degli anni ottanta, mancando della cultura musicale di base che avrebbe dovuto essere delegata alla scuola, ma che invece non ha mai attuato la normativa per realizzarla, cominciò a essere distratto da altro. Finito l’effetto di promozione sociale che indirizzava le scelte del pubblico, cominciò la trasformazione verso un consumo culturale più facile e che non richiedesse particolari sforzi. Le favolose realizzazioni del Maggio Musicale Fiorentino, del Festival di Spoleto, della Piccola Scala ma anche il richiamo di concerti minori, cominciarono drasticamente a perdere seguito. Cominciò una deriva culturale che neppure i molti vari responsabili delle programmazioni musicali riuscirono a leggere ed interpretare bene, indirizzandosi più volentieri verso lo star system che verso la fantasia intellettuale e impigrendo ancor più gli ascoltatori, perdendo coloro che invece dalla musica si aspettavano qualcosa di più stimolante e più ancora intere generazioni di giovani che si rivolsero altrove.

Poi sopravvenne in Italia il ” berlusconismo”, fenomeno sociale e di costume che propugnava una visione liberistica della vita assolutamente estranea all’intelletto e alla cultura, in parte subìto e in parte agognato da una parte del popolo poco abituato all’esercizio della scelta consapevole. L’ondata di tale fenomeno, mai estinta e indirizzata verso la superficialità e esteriorità soprattutto attraverso le Tv commerciali ed anche nazionali, ha decisamente coinvolto tutto quel pubblico meno accorto e tutte le generazioni più deboli e meno preparate.

Se l’Italia degli anni 70 e 80 sembrava avviata verso una maggiore consapevolezza dei valori culturali, oggi si deve registrare invece una disarmante incapacità nell’individuare le varie possibilità formative che possano rendere migliore l’esistenza personale, nell’illusione che solo i soldi e il successo a basso costo realizzino la felicità. Tale fenomeno ha pesantemente “formato” una larghissima parte della popolazione allontanandola dai valori intellettuali e culturali e soprattutto le “discipline” meno radicate come la musica o la poesia ne hanno risentito molto. Ciò nonostante le istituzioni e le attività intraprese nel periodo precedente, anche in virtù di anteriori scelte pubbliche che ne hanno determinato il sostegno, sono sopravvissute e in alcuni casi sono vive e attive anche oggi, spesso lamentando lo scollamento dovuto a una drastica diminuzione di attenzione da parte del pubblico e dei media. Gli enti che allora programmavano quattro o cinque repliche di molte produzioni, oggi riescono a farne al massimo due; i Conservatori di Musica, che proliferarono negli anni settanta in maniera abnorme e senza adeguata selezione, adesso si sono ridimensionati e fanno fatica a trovare la loro vera finalità nella società.

Pur notando oggi un qualche segno di leggero miglioramento, la musica sta passando un periodo di difficoltà, considerata quasi un retaggio di un mondo superato, e confusa spesso con quelle forme “sonore” che poco hanno a che vedere con una disciplina che da sempre è stata espressione della più profonda sensibilità umana e straordinaria comunicazione fra le generazioni. Per chi, come me, ha vissuto la vivacità degli anni 60, 70 e prima parte degli 80 è facile sentire la nostalgia di quegli anni passati, ma sarebbe troppo semplice dire che tutto è andato perduto. Alcune realtà hanno trovato modo e spazio per alimentare l’interesse del proprio pubblico: a Torino è nato un sistema musicale in cui tutte le organizzazioni collaborano fra loro; a Roma la IUC ha fidelizzato il suo pubblico proprio lavorando dentro l’università. Anche altre realtà musicali realizzano da sempre una giusta politica di fidelizzazione del pubblico senza sciocchi antagonismi fra chi lavora con simili scopi. Ma in linea generale il pubblico è disorientato e poco partecipe e intere generazioni sono indifferenti a questo genere di attività culturale. Anche il sopravvenire della riproduzione informatica musicale, ormai di facilissima utilizzazione, ha tolto attrattiva ai concerti dal vivo, gli unici che realizzano il vero significato della musica che sono frequentati quasi completamente da ultrasessantenni. Fenomeno generale in tutta Europa, anche se in maniera meno marcata. Solo in Cina e Giappone le sale sono piene di giovani.

Eppure nelle nostre città, e non solo dei capoluoghi, continuano a esistere, anche se con difficoltà, realtà dinamiche e interessanti. Nella nostra Firenze vi è una offerta di straordinaria varietà che copre ogni appetito dei cultori musicali: musica contemporanea, musica antica, elettronica, jazz, oltre naturalmente alle storiche stagioni del Teatro del Maggio, dell’Ort, degli Amici della Musica. Ciò che resta deficitaria e indefinibile è una vera politica di cultura musicale che attragga un nuovo pubblico, un pubblico di giovani, di studenti, che faccia superare la diffidenza verso questa arte. Nei bandi del Mic/Fus, ed anche i quelli della Fondazione CR Firenze, tale indirizzo è presente, forse non abbastanza, ma chi dovrebbe dare un segnale importante sono gli Enti locali, Comune e Regione attraverso i propri Assessorati. Nel settore serve una politica della comunicazione, del costo degli spettacoli, serve instillare interesse attraverso le scuole, le università. Il contrario di ciò che è stato fatto dal Teatro del Maggio che, incapace di riempire 2000 posti, ha aumentato i biglietti per sostenere i costi di produzioni sempre più ambiziose e care, ignorando che la città di ben altro aveva bisogno. Ora, con i recenti cambi direttivi speriamo in una inversione di linea, già dichiarata. Anche in altri sodalizi musicali storici come gli Amici della Musica vi è finalmente un rinnovamento verso direzioni più innovative ed interessanti, pur senza perdere il carattere della grande stagione cameristica tradizionale.

La necessità di attrarre pubblico nuovo è però più avvertibile nelle linee di alcune realtà di più piccole dimensioni, come Tempo Reale, l’Homme Armé, Camerata Strumentale di Prato, Suoni Riflessi, che dirigo, e che ha stretto rapporti di collaborazione con il Conservatorio Cherubini, l’Università, alcune scuole superiori e medie. Collaborazioni che si sviluppano già all’interno dei concerti del Festival che si tiene da 20 anni nell’autunno.

Senza un forte indirizzo in questo senso, senza una politica che prenda in esame la musica come cultura da proteggere e diffondere, questa arte rischia davvero di essere relegata fra i resti di un tempo che fu. La musica deve tornare ad essere riconosciuta da tutti, giovani e meno giovani non come una manifestazione superata e cerebrale, ma come un’arte in grado di comunicare attraverso i suoni le più grandi ricchezze della sensibilità umana, come un tesoro interiore da amare e sviluppare.

Mario Ancillotti

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